Indipendentismo: oltre la nazione sarda [di Maurizio Onnis]
La storia d’Europa ci ha consegnato due tipi di nazionalismo. Il primo è il nazionalismo “buono” nato dopo il Congresso di Vienna del 1814-15. È il nazionalismo romantico, che fonda la coscienza identitaria di ciascun popolo sulla consapevolezza della lingua, delle tradizioni e di un passato comuni, spingendolo a cercare l’indipendenza e creare un proprio Stato, libero da qualsiasi dominio esterno. È il nazionalismo che affratella, che promuove la cooperazione tra i popoli, che spinge lord Byron, Santorre di Santa Rosa e molti altri a battersi e morire per i greci. Il secondo è il nazionalismo “cattivo” nato dopo il compimento dell’unità tedesca, nel 1870-71, e attecchito a fine secolo sul terreno della competizione politica, economica e militare tra grandi Stati d’Europa. È il nazionalismo sciovinista, pangermanista e panslavista, che divide, che allontana i popoli del continente uno dall’altro, che sfocia nella competizione coloniale e imperialista, con il dominio su altri popoli, asiatici e africani, considerati razzialmente inferiori. È il nazionalismo che porta nel 1914 alla Prima guerra mondiale. Al tempo sudditi dei Savoia, noi sardi sperimentiamo il nazionalismo “buono” solo di riflesso. Prodotto d’importazione, lo rielaboriamo facendone la giustificazione della Fusione Perfetta e poi dell’ingresso nel Regno d’Italia. Non è il nazionalismo dei sardi che, riconoscendosi sardi, aspirano all’indipendenza statuale, come accade ai belgi sotto gli olandesi, come desiderano i polacchi sotto i russi o i greci e i balcanici sotto gli ottomani. È il nazionalismo dei sardi che si sentono italiani e cercano nella Fusione Perfetta e nell’aggregazione al Regno d’Italia una conferma di questa loro sovra-identità. Discorso analogo vale per il nazionalismo “cattivo” e competitivo che lega l’Ottocento al Novecento. In totale e incomprensibile cortocircuito rispetto alle effettive esigenze politiche, economiche e sociali dell’isola, la vocazione “italiana” dei sardi s’incarna e sanguina nella Brigata Sassari, mandata a battersi per confini che non ci appartengono. Oggi molti sardi sollevano la testa, con l’obiettivo legittimo e più o meno prossimo di arrivare all’autodeterminazione e all’indipendenza attraverso un voto democratico. L’indipendentismo sa che può giungere a tale risultato solo innalzandosi sul piedistallo di una solida coscienza collettiva, ma compie l’errore di chiamare questa coscienza una coscienza “nazionale” o, altrimenti, una coscienza “di popolo”. E utilizza in tal modo un linguaggio dal duplice difetto: anacronistico e inadatto a noi. Chi vive nei paesi dell’isola, piccoli o grandi, comunque la quasi totalità dei 377 comuni sardi, sa che per i loro abitanti il termine “nazione” non ha alcun senso. Proprio lì, dove meglio resistono la lingua e la cultura autoctone e dove meglio potrebbe applicarsi il concetto ottocentesco di “nazione”, ancora oggi prevale spesso il sentimento esclusivo d’appartenenza alla piccola comunità locale: è il pays in cui si è nati e cresciuti, in cui tutto comincia e finisce, che non contempla l’allargarsi dello sguardo all’intero “popolo” sardo. Perché l’indipendentismo “moderno”, come viene a volte definito, penetri adeguatamente in ogni ambiente sociale e geografico della Sardegna deve porre in secondo piano concetti, e relativi substrati, nati in luoghi lontani e validi in epoche ormai passate. Lo studio della storia e della lingua sarde va ancora e sempre più incentivato, perché la loro utilità come collante identitario è indiscussa, ma nella comunicazione l’indipendentismo deve fare un passo avanti. Bisogna trovare nuovi fattori unificanti, davvero “moderni”, immediatamente comprensibili e condivisibili da ogni sardo, ricco o povero, istruito o meno, contadino, imprenditore, impiegato. Qualcosa che parli, per citare Eliseo Spiga, tanto ai «funzionari del tempio e del sovrano, i servi e gli schiavi» cittadini, quanto ai «nuragici» che si fanno «scudo della sovranità comunitaria», ciascuno con le sue peculiari credenze o manie. E se si trattasse di parole o concetti importati dovrebbero comunque avere una solida aderenza alla realtà nostra. Un primo passo può essere la transizione da un indipendentismo di “narrazione”, poggiante sulla nostra specialità storica e culturale, a un indipendentismo di “scopo”, poggiante sull’altissimo grado di libertà e benessere che la Sardegna, grande isola per 1,6 milioni di abitanti, ci offre se solo la curiamo. Si tratta insomma di divenire nazione, finalmente, non più solo attraverso la conoscenza, la conservazione e l’assemblaggio di ciò che siamo stati, ma attraverso la conoscenza e la realizzazione della nostra missione: promuovere lo sviluppo di questa terra per promuovere il nostro stesso sviluppo. È una missione collettiva e individuale. È un nuovo senso morale di ciò che ci compete storicamente: nella relazione col mondo e nell’apertura al mondo, scegliere prima di tutto la ricchezza di quest’isola e nostra. Prima la Sardegna. Perché la Sardegna porta all’indipendenza dei sardi. |