Il suo nome è Aldo [di Francesca Gallus]
Il giorno in cui la vidi per la prima volta aveva i capelli rossi e gli occhi verde chiaro, era molto truccata e camminava vaga nel corridoio degli articoli per animali, prendeva in mano delle scatolette a casaccio, cibo per cani, per gatti e le rimetteva a posto.Giovane giovane. Ho occhio per le donne, le guardo e so cosa farebbero per me, lo capisco da come toccano le cose ed attraverso il mio monitor le seguo per un poco, nel loro percorso. Posso farlo, anzi devo, nel caso qualche cliente mi sembri sospetto, nel caso abbia un cappotto troppo largo per la sua taglia o all’ingresso non prenda con sé un carrello per gli acquisti. Certo qualche tempo fa vedevo solo sagome grigie, i monitor erano in bianconero, come le vecchie tv che ho conosciuto nella mia infanzia; non sembra vero. Ora i colori sono brillanti e vivi anche se spesso il riverbero delle luci acceca il mio occhio elettronico e resto per un poco immobile e abbacinato come una lepre sull’autostrada, fino a che il lampo bianco non si trasforma in piccole stelle comete. Bene, le donne; queste donne distratte, frettolose, che scelgono prodotti diversi spesso con attenta cura, come se riempire quei carrelli fosse un compito di grande responsabilità, non sono tutte uguali. Alcune, se va bene almeno una per ogni turno di lavoro, toccano tutto come per sentire al tatto il suo valore; camminano, senza saperlo, e non parlo di quelle che ancheggiano, no, o di quelle con magliette attillate o scollate, non parlo di quelle a cui si indovina il filo del tanga fra i glutei, alcune dico, camminano come se stessero per stendersi supine su un letto, voltare il capo da un lato, e, aprendo le braccia, abbassare le palpebre, per farsi cominciare a baciare, e poi accogliere il peso di un uomo sopra di loro. Lei era così. Con la sua giovinezza, la sua impudicizia che nemmeno sapeva di avere, col suo giubbotto grosso che anche se la infagottava non nascondeva la grazia e la delicatezza del suo corpo. La mia stanza non deve stare necessariamente al buio. La tv a circuito chiuso è in tutto e per tutto uguale a quelle di casa, ma per certe cose è più comodo tenere le luci spente. Anche Aldo, il mio collega dell’altro turno dice che così ci si concentra meglio su ciò che accade negli schermi, e su questa piccola bugia teniamo in piedi una delle nostre poche complicità. -Ciao Aldo-, -Ciao Aldo- ci diciamo ad ogni cambio di turno, e poco altro. Perché mi chiamo Aldo anch’io. Io sono Aldo piccolo, lui, enorme, con una testa quadrata di capelli ricci è Aldone. Così ci chiamano i nostri colleghi per distinguerci, ma noi, fra di noi, ci chiamiamo solo col nostro nome proprio. Ho ventotto anni, un’automobile di seconda mano, un debito con la banca per pagare il monolocale dove abito ed una madre anziana che vive in un’altra città. L’ho lasciata sola, sono figlio unico, perché non potevo più sopportare il senso di colpa che mi bruciava lo stomaco ogni volta che rientrando a casa vedevo i suoi occhi da cane e il rimprovero muto dei gesti contratti con cui apparecchiava per me: lei aveva già mangiato, da sola. In questa nuova città, più grande della mia, non conosco quasi nessuno, ma quelli che conosco mi bastano. Lei era una di quelle che guardano in alto, verso la mia telecamera e qualche volta sorridono, ed è abbastanza perché io le veda come sarebbero con gli occhi socchiusi, con il rimmel che riga il viso di nero, per il sudore e la stanchezza. Non so se quello fosse il primo giorno che veniva da noi. A volte capita: una cliente abituale, che ricordi solo per averla vista spesso, un giorno entra, e sembra per tutto uguale a ieri, ma già dai primi passi, dai primi sguardi capisci che in lei qualcosa è cambiato.Cosa non so. Delle volte, credo, solo, per qualche caso, la loro disponibilità economica.Lo capisco dai loro acquisti, certo, non più biscotti al chilo, non più carne di pollo o formaggio dolce, ma prosciutto di Parma, filetto di bovino adulto, pomodorini a grappolo, € 3,50 al Kg, cose che io non compro mai. Perché troie son tutte troie, certo, e bastano poche lire in più per far loro venire la voglia. Ma questa, insomma, con i suoi occhi verde chiaro, era così di suo, niente ricchi fighetti ad aspettarla o accompagnarla, niente cibi golosi per lei. Insalata, carote, pane. Una studentessa fuori sede, come ne vengono molte da noi. Stiamo in centro, in questa città universitaria, dove oltre a vecchi e ricchi che ristrutturano case cadenti stanno, in stamberghe fredde e umide, in quattro in due stanze, studenti senza soldi. Caffè, dolci ripieni di crema, cioccolato al latte (ah, non è per la dieta quella verdura), shampoo alla vaniglia, sale da cucina (torna indietro contromano, incastra le ruote del suo carrello con quello di un’altra signora, mi scusi, di niente, prego), succo di ananas, succo d’arancia, mele, no, troppe, forse troppo care, piatti di carta, guarda, quelli meno cari, un litro di latte, ritorna, pane in cassetta, ha già il pane fresco, lo lascia sullo scaffale delle patatine, già che c’è prende le patatine. Basta, alla cassa. Il rosso ed il verde le donano e si intonano benissimo con la sua carnagione chiara e con le lentiggini che dal viso le scendono sul collo e spariscono, nel mistero del suo piccolo golf sbiadito. Un piccolo sogno in un giorno qualunque, una piccola cosa calda da dimenticare, o da ricordare una sera di solitudine più triste. La solitudine non sempre non è triste. Lo so, per me, l’ho detto, meglio star solo che mischiarmi con chiunque. Meglio i miei giochi, il mio computer, meglio i miei studi e i miei libri. Ma certe sere, non sempre fredde, o di pioggia e di nuvole nere, ma più spesso di cielo limpido e sereno, di brezze calde di mare, profumate di nostalgia, certe sere esco. Cammino da solo per un tratto di strada e vado a un locale dove trovo delle persone che conosco. Si beve una birra, si parla di niente. Ridere si ride poco; è una compagnia di maschi, però tranquilli. Qualcuno, qualche volta, sa di qualche festa o di una discoteca dove gli va di andare e così si va, anche fuori, a qualche ora di macchina, e si balla e si beve fino a mattina. A casa questo non lo facevo mai. Troppo per mia madre, che in vita sua è andata al più in parrocchia o a feste in casa. Mia madre andava a ore a pulire gli appartamenti di donne troppo occupate per farlo da se. La signora del lunedì, quella del martedì, quella del giovedì entravano poi in casa nostra dai suoi racconti e per i loro panni da stirare. Un mestiere come un altro. Non mi importa niente di quella retorica della madre che si spacca la schiena a lavorare e poi a casa deve ricominciare daccapo e far le stesse cose per la sua famiglia. Non fa per me questo tipo di patetica commiserazione. Ho studiato sino alla fine del liceo, con buoni voti, anche ottimi, poi qualche anno di svogliata università e infine il trasferimento. Questo lavoro lo facevo già da qualche anno: mi sono fatto raccomandare dalla società in cui stavo e facevo bene e ho trovato subito il posto qui. Mi son portato dietro i libri, non si sa mai che mi laurei prima o poi. Questa ragazza è tornata spesso a fare la spesa ma ogni volta mi è sembrata un poco diversa, avrei fatto fatica a riconoscerla non fosse stato per quella sua aria speciale. Quei capelli rossi un giorno erano nascosti da una cuffia di lana e gli occhi, piccoli piccoli, per il sonno arretrato forse, erano quasi invisibili. Il carrello pieno delle solite cose: riso, birra, biscotti al latte. Mele, carote, zuccherini, uova. Queste ragazze non mangiano mai carne, mia madre avrebbe da ridire. Le mani piccole, paffute, tocca tutto e lo rimette, non sempre al posto giusto: vuole rubare. E ruba: tampax, mandorle sbucciate, una crema di bellezza, formaggini. I prodotti non hanno etichetta magnetica, la faccio passare. Mi è sembrato strano per lei, mi sembrava un altro tipo. Devo guardarla meglio, capirla di più. Ci ho pensato andando a casa, nel freddo della macchina. Aldo non l’avrebbe fatta passare, è inflessibile lui, un duro tutto d’un pezzo. Quando la rivedo i suoi capelli fini hanno un riflesso più biondo, ma i suoi movimenti sono un’emozione grande. C’è una persona sospetta, all’interno, già segnalata più volte e non posso perderla di vista, così devo per forza rinunciare alla mia caccia personale, ma il pensiero che ci sia lei mi distrae, mi tormenta. Le altre iniziano a sbiadire a uscirmi dai pensieri, le matrone lascive, le trentenni nervose non hanno un briciolo della sensualità della mia innocente bambina. La desidero ogni giorno, voglio vedere le sue gambe magre, le sue piccole mani che afferrano tutto, il suo sguardo stanco e vivo. Aldo non sa, non capirebbe e mi riassume i contatti del giorno (la bionda platino è passata per un attimo, la spilungona è rimasta quasi un’ora, e culo grosso! Ah!oggi era la sua giornata!), senza immaginare a cosa penso. È solo mia, il mio segreto, il mio passerotto caldo. Fragile e dolce torna e ritorna, ogni giorno un pochino diversa: occhi neri, capelli più corti, meno trucco, più trucco, un paio di guanti che le nascondono le manine rosse. Ed io, nel mio buio caldo, vedo solo lei, solo lei guardo, e immagino tutto, ogni giorno meglio. Posso sentire anche la sua voce chiamarmi, in quel modo speciale, roco, sordo, che non ha mai tranne che per me. Passa fra gli scaffali, con la sua povera spesa di fuori sede con pochi soldi, con la sua energia giovane o la sua stanchezza da studio. La seguo e non la mollo e spero sempre che mi guardi, che si trattenga un po’ di più, con in mano quella pasta corta, o le zucchine, di cui legge il prezzo prima di metterle nel carrello. A giorni impacciata, fa cadere le scatole dagli scaffali, a giorni disinvolta si muove più rapida e decisa. Sempre sola. E ormai non vivo che per lei, per i suoi capelli ogni giorno di diverso colore, le sue labbra imbronciate, i suoi occhi, le sue mani piccole e morbide. L’aspetto, la penso e mi chiudo dentro la mia stanza ogni giorno più impaziente: -Ciao Aldo – dico, e non vedo l’ora che se ne vada, prima che arrivi lei, che prenda su le sue cose e mi lasci solo ad aspettare. Avevo una compagna di scuola che si chiamava Livia, era bionda e slavata proprio come questa mia ragazza, così penso si chiami Livia anche lei. Allora arrivo presto, con dei bigliettini, che ho scritto a casa. – To Livia I Love you. –. Questo scrivo ogni sera sui miei bigliettini colorati e li lascio, uno al giorno, in uno dei suoi scaffali preferiti, fra il riso o i succhi di frutta. E la spio, quando li trova, la vedo sorridere, e quando è bionda o castana, con gli occhi grandi o piccoli come noccioli di ciliegia, li rimette sempre al loro posto, dov’erano. Perché Livia, perché non li prendi, non senti che sono per te? Per la tua semplicità, per la tua innocenza, per la tua sensualità, la tua dolce passione. Allora li firmo: Aldo scrivo, dopo la mia frase d’amore. Saprà riconoscermi, saprà che sono io. Agli amici, come ad Aldo, non dico niente. Non voglio che nessuno sappia quello che sento, nessuno deve sporcare coi commenti grevi, con stupide frasi il mio semplice sogno. La sento mia, mi sembra da sempre e sono così preso a pensarla, a spiarla, che non esco nemmeno più, la sera. E nessuno mi cerca, si vede che la mia mancanza non si sente molto. Aspetto, ormai, solo un’occasione. Oggi è arrivata tardi, alla fine del mio turno, gli stivali troppo larghi, le gambe nere di calze grosse, i capelli, scuri anche quelli, legati in una coda di cavallo, gli occhi neri. Era alla cassa, pochi altri clienti, -Ciao Aldo- ho detto, e son volato fuori. L’ho aspettata e l’ho presa nel parcheggio, deserto. Lei gridava e piangeva, mi ha picchiato e graffiato persino. Io l’accarezzavo, le dicevo, piano, Livia, non piangere, Livia sono io, sono Aldo, lo sai, sono io. Ma non è bastato per calmarla, per farla star zitta, sembrava quasi che non mi conoscesse, no, no, no diceva soltanto. Aldo, dal suo monitor ha visto tutto, ha chiamato la vigilanza. Ora sono qui, seduto su una panca, alla stazione di polizia e aspetto che mi chiamino. |
(….) e aspetto che mi chiamino.
Questa è la fine della frase che compare troncata alla fine del testo.
Per chi abbia interesse alla cosa 😉
Grazie a tutti.
Francesca Gallus
Brava Fra, 🙂
Buon lavoro.