La Catalogna e noi [di Nicolò Migheli]
Catalani e spagnoli non si sono mai amati troppo. Neanche detestati troppo però. Un sentimento duplice che viene da una storia che ha visto anche contrasti sanguinosi per causa del centralismo madrileno e del bisogno di autogoverno catalano. Nel 1843 Il generale Fernández-Espartero Álvarez de Toro reggente della corona spagnola, disse che «A Barcelona hay que bombardearla al menos una vez cada 50 años.». Qualche anno dopo Francisco Pi y Margall, secondo presidente della prima repubblica, ebbe a dire che dal 1714, quando le truppe di Filippo V entrarono a Barcellona, la perdita di libertà della Catalogna annuncia quella della Spagna. Lo stesso atteggiamento duplice è proseguito durante la seconda repubblica e la Guerra Civile. Si è riprodotto anche in questi anni di grande confronto tra il governo di Madrid e la Generalitat de Catalunya. L’intransigenza di Rajoy ha portato su posizioni indipendentiste un moderato come Artur Mas. Uno scontro di 303 giorni approdato nella consulta democratica del 9 novembre. Anche questa dichiarata illegale dalla Corte Suprema. La Fiscalia, la procura spagnola, pare che denuncerà Mas e due suoi collaboratori por desobediéncia. Mentre il Partido Popular e le massime istituzioni perseguono il muro contro muro, il PSOE dichiara che il risultato catalano è da considerarsi positivo perché annuncia lo stato federale. Il sistema politico bipartitico della Spagna nato con la costituzione del 1978, è in grave crisi, oggi i sondaggi danno come primo partito Podemos, l’erede degli Indignados. La consulta del 9 di novembre ha legittimato i catalani ad avere un referendum vero. I fatti sono andati oltre le contromisure del sistema politico. Mentre una parte della Spagna vorrebbe rispondere con più autonomia in Italia si assiste la processo contrario. Il governo Renzi sia con le riforme costituzionali che con il decreto Sblocca Italia, si riprende tutte le competenze, con il risultato di esautorare le autonomie locali. I comuni trasformati in esattori potrebbero pure consegnare le chiavi a Roma. Galli della Loggia in articolo sul Corriere della Sera riportato da questa rivista scrive: “Il cui carattere più intimo e vero [della crisi italiana ndr] non sta nell’economia, che in certo senso ne è solo l’involucro. Sta nel fatto che una parte sempre maggiore di italiani – in modo specialissimo quelli che abitano il Paese reale, per l’appunto – non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe fatte rispettare da un’autorità vera. Non riesce più a credere, cioè, che esista uno Stato.” Si potrebbe aggiungere però che l’Italia è sempre stata un paese ad identità debole, un luogo artificiale che ha tentato di darsi una unità fino a quando sono esistite classi dirigenti che in essa si riconoscevano. Oggi si assiste ad un disancoraggio delle èlite che vivono se stesse come cosmopolite ed internazionali, trasferiscono i loro impegni all’estero, lasciando che il Paese ritrovi da solo lo stellone che lo salverà. In un quadro del genere non sarà certo Renzi con il suo neo bonapartismo a salvarlo. Lui per primo si fa pagare cene di finanziamento per il PD da quelle èlite che sono le prime a non crederci. L’istituto di ricerca Demos, con una indagine rivela che 3 italiani su 10 vorrebbero la propria regione indipendente. Lo sfasciume pendulo che Giustino Fortunato attribuiva alla montagna appenninica meridionale si aggiunge allo sfasciume dell’essere italiani, tanto da desiderare o sognare gli stati preunitari. Cambia per molti lo spazio di riferimento. Un desiderio di heimat più che di faterland. Quella ricerca rivela che il 45% dei sardi vorrebbero essere indipendenti. Un dato che se per certi versi non sorprende – lo stesso della ricerca fatta nel 2012 dalle università di Cagliari ed Edimburgo – conferma però che l’ipotesi dell’autogoverno è ancora solo un sentimento. Fino ad ora potrebbe essere solamente una reazione alla crisi, al venir meno dell’identità italiana. Nella creazione di un indipendentismo forte molto dovrà essere fatto, prima di tutto con un lavoro culturale che veda nella lingua sarda il punto fondante. È abbastanza curioso che la prima giunta dove sono rappresentate istanze sovraniste ed indipendentiste sia muta sull’uso del sardo. Sulla stampa italiana si è scritto che i catalani vogliono l’indipendenza perché sono stanchi di contribuire con le loro tasse alle spese delle regioni più povere equiparandoli ai leghisti. Non vi è dubbio che anche questo abbia avuto il suo peso. Curiosamente però giornali della sinistra spagnola come Pùblico, sottolineano di più l’aspetto culturale e di ricerca di libertà. Quel giornale ha visto in Catalogna il desiderio di costruzione di una società diversa, che vuole liberarsi da quella corrente reazionaria e franchista che da sempre condiziona la vita politica spagnola. In molti neo indipendentisti sardi vi è un sentimento paragonabile. Fuggire dallo sfascio di un paese e di una classe dirigente che da troppi anni dà il peggio di sé. Benché la crisi spagnola e quella italiana abbiano caratteristiche differenti sono unite dall’atteggiamento della Ue. Dieci anni di commissione Barroso, che ha operato per bloccare l’integrazione del continente trasformando le istituzioni europee in agenzie a servizio dei paesi, alla fine hanno favorito processi disgregativi dentro gli stati nazione tradizionali. Sempre di più diventa urgente una grande processo di riforma dell’Unione Europea che favorisca processi democratici in cui i popoli si riconoscano. Quelle potrebbero essere le condizioni internazionali per le indipendenze delle nazioni senza stato. Un sogno? Forse. La storia però cammina senza chiedere il permesso. |