La maschera e il volto [di Silvano Tagliagambe]
Quello che colpisce maggiormente, seguendo i talk-show che ormai imperversano in tutti i canali televisivi, è la mancanza di quel distillato della conoscenza di cui parla Canetti, che lo individua nella capacità, “dopo qualsiasi cosa di meraviglioso o di tremendo, di tornare a essere semplici, come all’inizio”. Tornare, cioè, a essere semplicemente un uomo o una donna, a seconda dei casi. Spesso invece in quei dibattiti ci troviamo di fronte a soggetti incapaci di scendere dal pulpito in cui ritengono, non si capisce bene in virtù di che cosa, di poter salire e di tornare a essere una persona. Questo, a mio giudizio, è il primo e più sicuro segno di una inadeguatezza non solo culturale, ma anche umana. Indossare, senza mai smetterla, la maschera della funzione che si ricopre pro tempore, politica, amministrativa, accademica e via elencando, vuol dire non sapere che il significato iniziale della parola “maschera” è larva, con cui si definisce qualcosa di simile a un volto, somigliante a un volto, che si spaccia per il volto e per tale viene preso, ma che è vuoto all’interno, tanto in senso materiale e fisico quanto sostanziale. Va ricordato che la parola larva aveva già presso i romani il significato di ‘vuoto’ inanis, di cliché insostanziale rimasto dal morto, ed era per questo ritenuta dalla saggezza popolare una proprietà dell’impurità e del male. Di fronte a questa esibizione di maschere vuote all’interno tornano alla mente le sagge considerazioni di Borges in un piccolo libro, che raccoglie una conferenza tenuta al Libero Collegio di Studi Superiori a Buenos Aires nel 1975, pubblicato in Argentina nel 1976 e tradotto in francese da Gallimard col titolo Qu’est-ce que le bouddhisme? Trattando dell’etica buddhista Borges fa parlare direttamente alcuni testi del Canone Tripitaka, che risale a 2600 anni fa, nei quali troviamo perle di saggezza come questa: “Se aspiri davvero a liberarti, scruta a fondo i desideri e le passioni; segui come nascono, come si insediano, come ti rodono e come si dissolvono; essi sono vuoti, ha dunque senso attaccarsi al vuoto?”. Forse perché anche il più incallito teledipendente comincia a capire che non ha senso e vede il nulla come uno spettro che ormai dilaga da un canale all’altro, gli indici di ascolto di questi talk-show stanno precipitando in maniera che pare irreversibile. Per arrestare questa crisi occorrerebbe compiere una virata che non sembra però essere nelle corde dei conduttori di quei programmi: trasformare l’inanis e il vuoto delle maschere dei loro ospiti in quella ben diversa concezione del “vuoto” di cui parla il filosofo giapponese Hoseki Schinichi Hisamatsu in un piccolo quanto prezioso testo dal titolo La pienezza del nulla (il Melangolo 1985). Il “vuoto” di cui si parla in questo caso è quello del cuore quando si riesce a liberarlo dagli impedimenti e dalle minacce, dagli impulsi irrefrenabili di cui abitualmente è carico e che lo insudiciano. Il risultato di questa irruzione del vuoto qui non è la fiera delle vanità delle varie maschere di turno ma un’operazione di purificazione che viene presentata così: “In casa nostra togliamo la polvere, ma di levare la polvere dal cuore e lucidarlo come uno specchio terso, non ci passa per la mente. Diciamo: Sono fatto così; è più forte di me; non posso cambiare. Questa è l’ostruzione maggiore: la resistenza a forzare le abitudini, a snidare i preconcetti, a non temere, a vivere lo stupore, a riscoprire la spontaneità della prima infanzia”. La resistenza, insomma, a tornare a essere semplici, a tornare a essere, semplicemente, un uomo o una donna, come appunto diceva Canetti.
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