Faccio cose culturali [di Enrico Trogu]
La possibilità che Cagliari potesse divenire Capitale europea della Cultura ha fatto sì che la comunità cittadina (e isolana) potesse immergersi in una disorientante bulimia linguistica attorno alla povera diade cultura/culturale. L’effetto di ciò, prescindendo dalla vittoria lucana, è stato in alcuni momenti la “culturalizzazione” di una miriade di attività, progetti, concerti, eventi e quant’altro potesse anche solo lontanamente o vagamente passare per frutto di sforzo intellettuale. Se l’approdo quantitativo ha dato l’illusione di potersi affacciare al Mediterraneo più evoluto con i piedi d’argilla di un mondo ancora da strutturare (attenzione, non abbiamo un museo degno di tale nome), sul versante qualità ciò che si è smosso riguarda il significato del “fare” cultura. Prendersela coi musei, appunto, è facile: se a Palermo o Istanbul quelli archeologici sono logisticamente inadattie ma pur sempre bellissime strutture storiche, in cui il vintage e il lato romantico vincono, Cagliari pare ormai il piccolo sforzo di un piccolo popolo; schizofrenia pura, se compariamo le potenzialità del contenitore attuale con quanto possediamo veramente. Prendercela con noi stessi, invece, dobbiamo. Come misuriamo il “prodotto” culturale” in generale? Come valutiamo il produttore? Essere, ad esempio, uno degli innumerevoli “blogger” che s’aggirano nei meandri di Via Roma è indice di mestiere? O fornisce una mantellina (lisa) per non saper bene come definirsi nel momento in cui devi presentare al mondo i tuoi venticinque lettori? Domande manichee, perché presuppongono l’accettazione o il rifiuto di un mondo (quello delle nuove comunicazioni) la cui democraticità è indefinibile. Ma sono domande ponte per qualcosa di ancora più difficile definizione. L’intellettuale. Oggi e in Sardegna. Se cultura può essere non solo creare opinione (e gusto) ma anche spostare più in là l‘asticella della conoscenza e coscienza del pubblico, occorre chiedersi quale attore, sia esso singolo o collettivo, è in grado oggi di cambiare la “pubblica” opinione nell’isola, e farlo, magari, senza citare il povero Gramsci ad ogni piè sospinto. Le università, una salamoia sempre più acida. Artisti della figura, del suono e della voce, qualche ricco e molti incazzati. Il mondo della scrittura, non ho gli strumenti per dare una definizione che abbracci l’intero orizzonte, aiutatemi! Probabile che tengano botta pochi corsi scolastici, sparuti insegnanti/guerriglieri, rari gruppi di resistenti che non hanno però le forze di creare un “mercato” tale da promuovere fruitori e permettere la dignità lavorativa dei veri professionisti. La politica, infine, non è capace di creare una narrazione che si innesti nel processo amministrativo e gestionale. Forse quello che manca è un sardismo vero. Una corrente culturale che valichi il vittimismo o la recriminazione consolatoria una volta per tutte. Che non abbia remore a usare i molteplici linguaggi di un popolo da sempre bilingue. Che usi gli strumenti effettivi e non onirici, attraverso le forze già esistenti, sarde e perciò italiane, al fine di darsi dignità per poi pretenderne riconoscimento. La lamentela e il silenzio son la forza del padrone. Un sardismo non negativo insomma.
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