Alle frasi incivili siamo abituate. Anzi no [di M. Tiziana Putzolu]

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E’ in pausa, Margherita. Si avvicina alla macchinetta del caffè dell’ufficio. Incontra un collega. Altri si stanno avvicinando. Ma sono lontani. Giornataccia. Dice lei rivolta a lui. E un gran mal di testa che non mi da tregua. Aggiunge toccandosi le tempie. Hai un analgesico? Saprei io come fartelo passare il mal di testa, le risponde lui, pronto, deciso, ammiccante. Lei arrossisce. Fa finta di non aver sentito. Di non aver capito.

Beve il caffè velocemente. Si allontana a passo svelto verso il suo ufficio. Chiude la porta. Da quel momento cerca di evitarlo. Ma lui ogni volta che la incontra le sibila frasette a doppio senso. Senza senso. Margherita non prende più l’ascensore. Evita le scale da sola. Non vuole incontrarlo. Cambia abitudini per evitarlo. Pensa di parlarne con il superiore. Capirà. Chiederà di cambiare ufficio. Settore. Ma cosa penserà poi il superiore di me? Ci riflette. Poi risoluta chiede un appuntamento. Schiena dritta. E’ l’unica soluzione.

Sono passati due mesi e questo non la smette. Va a parlare con lui. Ma no! Sdrammatizza, il superiore. Credo che lei possa aver interpretato male la frase. Il contesto. Ma come, pensa Margherita. Come posso aver interpretato male una frase così chiara ed esplicita. Il superiore prosegue. Il suo collega magari ha usato la frase sbagliata. Sa, magari voleva farle un complimento. Non dia peso. E’ solo una frase, detta così. Forse ha esagerato? Sì, però, bisogna capire il contesto…magari era solo una battuta!

Margherita lascia l’ufficio del superiore. Si sente svuotata. Annichilita. Sì, però? Cioè? Un complimento? Era meglio non parlarne. No, non dovevo parlarne. Sì. Forse ho esagerato. Amplificato. Ma quello è lì e continua a darmi fastidio. Ora parla male di me, in ufficio. Gli altri mi guardano con sospetto. Il superiore avrà detto qualcosa?

Sta male Margherita. Ha mal di stomaco. Torna in ufficio. Vertigini. Nausea. Va dal medico. Due mesi di cure. Vuole tornare al suo lavoro. Vede srotolarsi senza averne più controllo la sua vita. Non ce la fa. Alla fine decide di lasciare quel lavoro. Il suo lavoro. Per una frase. Solo una frase. Una maledetta frase.
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Una ricerca condotta dall’Istat qualche anno fa su tutto il territorio nazionale ci consegna un quadro conosciuto alle donne. Ma non per questo meno desolante. Racconta che circa la metà delle donne italiane dai 14 ai 65 anni (10 milioni 485 mila, pari al 51,8 per cento, ma sarebbero molte di più) hanno subito nell’arco della loro vita ricatti sessuali sul lavoro o molestie in senso lato come pedinamento, esibizionismo, telefonate oscene, molestie verbali e fisiche. Tra le mura domestiche, a scuola, all’università, per strada. Nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni, nei luoghi dello sport.

E’ un fenomeno che non accenna a diminuire. Che non esclude appartenenze a classi sociali, mestieri, regioni. Tutto questo ha un costo ingente. E un costo culturale e politico notevole. Peraltro sotto gli occhi di tutti. Tale profilo è stato analizzato da un altro studio (Intervita Onlus, 2013), intitolata Quanto costa il silenzio, Indagine nazionale sui costi economici e sociali della violenza contro le donne. La ricerca è stata in grado di stimare, per difetto, i costi della violenza contro le donne in termini di costi economici (salute, farmaci, giustizia, legali), effetti moltiplicatori economici (i costi legati alla mancata produttività), costi sociali (stimati in base ad una simulazione di risarcimento danni), il valore degli investimenti nella prevenzione.

Nel 2013 diventa legge in Italia, con grande soddisfazione di tutti, la Convenzione Internazionale in materia di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne, chiamata comunemente Convenzione di Istanbul. L’aspetto più innovativo del testo è senz’altro rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una violazione dei diritti umani. Che all’articolo 17, Partecipazione del settore privato e dei mass media, recita, ad esempio: ‘Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignita’’.
Il linguaggio violento ha preceduto la storia violenta. Sempre. E il punto è la frase. Una frase.
L’espressione volgare. Proprio quella. Da sola. Senza contorni o perifrasi. In sé e per sé. Non il suo contesto. E’ proprio quella frase che determina il contesto. Che agisce il contesto. Che attiva il contesto. Ne provoca le conseguenze. Ne crea il senso. Non è il contesto più generale, un ragionamento generale, un altro punto di vista generale a determinare la frase molesta, violenta, indigesta ed indigeribile. Il linguaggio è l’insieme dei modi, il codice con cui diamo un primo senso alla nostra realtà, a quella degli altri.

Con il linguaggio comunichiamo ciò che siamo e ciò che pensiamo. Nel linguaggio si formano e risiedono gli stereotipi, che sono le immagini mentali con cui rappresentiamo la realtà. Il linguaggio è il livello zero dal quale passa il rispetto della dignità delle donne. Tutte tutte. Senza bisogno di evocare ragionamenti più generali. Senza se, senza forse. Senza ma. Senza sconti per nessuno.

3 Comments

  1. Lilli Pruna

    Grazie, Tiziana. Questo è il tono e questi i temi con cui si deve spiegare la violenza contro le donne. Bravissima.

  2. Vito

    Ancora una volta hai centrato l’argomento. Soprattutto noi “maschi” non abbiamo assolutamente alcuna scusa, alcuna attenuante, alcuna giustificazione. Oltre la frase però vi è tutto il resto, ovvero “l’ambiente”, nel quale l’aspetto peggiore è la (solita?) estrema carenza di sensibilità, di comprensione da parte di chi HA il dovere di proteggere, che si può esprimere in due sole parole: superficialità e indifferenza, quando non è connivenza.
    Ecco, a mio parere, la nostra indifferenza può anche uccidere.

  3. Antonello Farris

    Più che di frase incivile ( Tiziana e anche troppo benevola) parlerei di frase volgare e schifosamente presuntuosa. La tipica frase delle persone (apparentemente normali) che nascondono nel proprio animo un atteggiamento da bullo, da prepotente dominatore che non considera le donne al suo livello. Con le donne c’è solo quel modo per far sì che non rompano le scatole, lui pensa. E ne è convinto, e se ne vanta, e dentro di sé pensa: ” io sì che sono togo…”

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