Il diritto alla dignità, sia per la vita che per la morte [di Anthony Muroni]
L’Unione Sarda.it 29 nov 2014. Distratti come siamo da una quotidianità fatta di impegni “improrogabili” sempre più vacui, un altissimo grido di dolore come quello di Walter Piludu – ampiamente raccolto da L’Unione in edicola oggi – rischia di passare inosservato o di non essere preso nella giusta considerazione. Il diritto del malato a scegliere una dignitosa fine della sua esperienza terrena è un tema non più solo etico ma anche sociale e politico. E l’Italia, che ha da decenni imboccato la strada di una Repubblica per niente laica, è in ritardo rispetto a una definitiva regolamentazione del tema. I casi Welby ed Englaro hanno prodotto polemiche che hanno anzi avuto l’effetto di svilirlo, senza produrre soluzioni. Perché in questo Paese non si è nemmeno riusciti a mettersi d’accordo sulla definizione di “fine vita” e malattia terminale. La sospensione dei farmaci può essere definita eutanasia? E l’astensione del medico, dietro precisa volontà del malato, da misure come la nutrizione artificiale e la ventilazione meccanica, come dev’essere configurata? Negli Usa si è a lungo discusso sulla Pianificazione anticipata delle cure, nella quale il paziente ha parte attiva: assieme ai curanti e ai familiari prende decisioni a proposito dei trattamenti che intende consentire o rifiutare. È una decisione che implica un confronto coi propri valori morali e di riferimento: valori che appartengono al singolo e non alloStato. Certo, serve una giusta e completa informazione medica, prima di prendere decisioni definitive. E sarebbe giusto che le stesse fossero poi comunicate e discusse con i parenti e le persone care. Il sasso lanciato nello stagno da Walter Piludu deve far tornare la discussione all’ordine del giorno, anche e soprattutto con riferimento alla Sla: una malattia tremenda, che si consuma – dopo aver progressivamente paralizzato l’ammalato – con un’insufficienza respiratoria che può essere contrastata solo mediante la ventilazione assistita. Il vero dilemma, racconta chi ha avuto la sfortuna di assistere un malato terminale fiaccato da questa sindrome, è legato proprio all’interruzione del trattamento, una volta avviato. E qua si torna alla necessità di pensare a una normativa che regolamenti l’inizio di un trattamento non voluto o la richiesta consapevole di disconnessione. Quest’ultima non significa necessariamente la manifestazione di una volontà di morire ma un ritiro del consenso al trattamento medico invasivo. Da qualsiasi parte la si guardi, una questione così delicata è quasi un peccato metterla in mano a una classe politica che spesso si mostra capace di annegare in due dita d’acqua. Semplificando, se per un credente la vita appartiene a Dio, per un laico liberale non appartiene certo allo Stato.
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