Come quell’alba sull’Atlantico [di Veronica Rosati]
Servivano quaranta giorni di transatlantico per raggiungere l’Argentina all’inizio degli anni Venti. Era necessario questo tempo infinito per traghettare una moltitudine di uomini e di donne italiani verso la speranza di una vita migliore. Mio nonno paterno, giovanissimo falegname trentino, era uno di loro. L’ho pensato spesso in questo ultimo periodo. Da quando la vita ha deciso che era giunto il momento di fare a nostra volta i bagagli verso maggiori certezze. La nostra nuova città è solo a poche ore d’auto dai luoghi in cui sono cresciuta. Non sarà necessario affidare i racconti di questo nuovo inizio ad una busta affrancata. Armati fino ai denti di smartphone, tablet e pc è possibile annientare in pochi istanti le distanze. La tv, anche nell’era digitale, continua ad essere il mezzo più diretto attraverso cui il circo stonato della politica irrompe nella nostra privata quotidianità. Come un disco rotto alterna le proposte di soluzioni effimere ai problemi dell’Italia alla concretezza di finire per parlare solo di se stessa. Ormai non si contano più i Ministri del Lavoro e i capi di governo che hanno promesso serie e concrete misure a sostegno del lavoro. Chi vive i drammi legati alla cronica mancanza di opportunità ricorda solo il loro vociare chiassoso. Hanno fatto discutere il loro ammettere che “il lavoro fisso non esiste più”. Sì, lo sappiamo tutti. Non esisteranno più quelle intere generazioni di impiegati sonnecchianti che attendono la fine della loro giornata lavorativa. Nessuno darà più per scontata la scrivania dove è seduto. Non tutti, almeno. Viviamo da anni tale situazione. Conosciamo benissimo la realtà delle cose, ma suona strana la sua ammissione da parte dei vertici dello Stato. Abbiamo verso di loro un tale rancore, che, nelle nostre menti, le loro parole suonano come un “Non meritate un posto fisso”. Non è colpa nostra se siamo prevenuti e consideriamo il tradizionale “pacchetto di interventi a favore del lavoro” una periodica serie di mazzate volte a disintegrare il nostro futuro. Lo sa benissimo quella generazione che sta silenziosamente invecchiando col contratto a progetto. È spesso un laureato, sopra la trentina la cui carriera lavorativa ha avuto luogo quasi esclusivamente attraverso forme atipiche di lavoro. È un precario talmente esperto da arrivare a preferire il suo consueto contratto a progetto a contratti a tempo determinato alla vecchia maniera. La ghigliottina della legge Fornero è troppo pericolosa per rischiare di rimanerne nuovamente colpiti. Non si è capito fino in fondo se esista ancora, ma meglio non farsi trovare impreparati. I grandi tecnici e chi è venuto dopo di loro non hanno previsto che, esaurito il numero massimo di rinnovi possibili, l’azienda preferisce spesso mandarti a casa, anziché stilare un contratto a tempo indeterminato. Già. Tutto questo non si impara nei Dipartimenti di Economia, te lo insegna la vita vera. Una grossa fetta di italiani non sa cosa significhi avere un contratto fisso. Al contrario della politica, che, dietro ai suoi proclami di realismo, continua a pensare attraverso le vecchie categorie. Abbiamo imparato che tutto può essere indeterminato, fuorché il lavoro. È sempre “qui e ora”. Ha un tempo ben stabilito, entro uno spazio, invece, mutevole. È finita l’illusione di vivere nel posto giusto del mondo, anche per chi è nato e cresciuto in regioni cosiddette ricche, come il Trentino. A differenza dei nostri connazionali del sud della penisola siamo stati abituati a vedere la gente partire per scelta. Fare la valigia significava decidere liberamente di voler aspirare a qualcosa di più grande della fetta di cielo sopra le nostre vallate. Ora l’aridità di opportunità e l’onda lunga della crisi hanno raggiunto luoghi storicamente solidi economicamente. Attaccano le nostre sicurezze, facendo maturare in noi la consapevolezza che non possono più esistere porti sicuri ed asettici ai mali di questo sgangherato terzo Millennio. Questa certezza passa inevitabilmente per il rancore. Un sentimento forte e, forse, sterile. Necessario per riuscire a rimboccarsi nuovamente le maniche. La vita non aspetta. Scorre più velocemente dei faticosi rinnovi dei nostri contratti a progetto. È un treno rapido che non possiamo perdere stavolta. Non fa niente se i nostri figli vivranno in luoghi che non abbiamo scelto per loro, se quei luoghi vedranno la loro felicità. Sarà questo l’indeterminato della nostra vita, se riusciremo sempre a renderli felici. Non serve prendersela con la politica che non si impegna abbastanza per moltiplicare le opportunità, superando le vecchie italiche categorie del lavoro. Non credo che mio nonno avesse rancore verso qualcuno, mentre faceva i bagagli per il Sud America. Probabilmente era triste e pensava con un sano fatalismo che, non avendo alternative, quella sarebbe stata la sua opportunità per un futuro migliore, almeno per il momento. Forse provava anche paura per quel lunghissimo viaggio verso luoghi infinitamente lontani dal suo piccolo paese alpino. Di una cosa sono certa, anche se quel nonno è morto molto prima che nascessi: aveva messo nella sua valigia una grande umiltà. Quella di chi ha bisogno di lasciare la propria terra per poter lavorare, con la forza di volontà e la determinazione a voler fare del proprio meglio. Continuando ad imparare da luoghi e da persone che solo il tempo renderà familiari e dimenticando quella strana forma di presunzione di chi aspetta da troppo tempo che la vita paghi il conto. La pianura padana e la sua nebbia autunnale paiono fondersi nelle emozioni con gli sconfinati orizzonti sull’oceano del lungo viaggio del nonno, facendosi speranza. Come ogni alba da quel transatlantico, quasi un secolo fa…
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