Siriano e omosessuale: due volte perseguitato [di Federico Dessì]
“Appena arrivati alla prigione di Zahle, ci hanno fatto fare un giro per le varie celle, una specie di parata: sia i secondini che gli altri prigionieri ci coprivano di insulti e di botte. Ci gridavano “checche, froci!”. Siamo stati picchiati e torturati per due motivi: in quanto siriani e in quanto omosessuali”. Farid* è un giovane sulla trentina, i capelli corti e scuri e la barba rada. Quando un anno fa ha lasciato Homs, la sua città natale, per venire a trovare rifugio in Libano, non immaginava certo di ritrovarsi vittima di una tale violenza. Aveva già vissuto enormi tragedie a causa della guerra in Siria. Aveva visto morire uno dopo l’altro quattro fratelli e molti altri parenti e amici. La sua casa era stata distrutta dai bombardamenti e si era ridotto a vivere in un minuscolo alloggio in affitto, assieme alla sua anziana madre. All’arrivo in Libano, Farid ha trovato lavoro in un bagno turco nel centro di Beirut. Il suo compito principale era di fare le pulizie e vendere bevande ai clienti nel salone d’ingresso. Assieme a lui lavoravano una ventina di colleghi, quasi tutti siriani e omosessuali. Mangiavano e dormivano assieme ed erano un gruppetto molto affiatato. Il bagno turco era diventato una specie di rifugio in questo paese straniero. Ma era anche un luogo di incontri erotici e alcuni di loro erano costretti a prostituirsi. Una sera ad agosto 2014, la polizia libanese ha compiuto una retata: “Sono entrati una quindicina di poliziotti armati e ci hanno portati via. Sia i clienti sia il personale. Una sola accusa: sodomia. Sono rimasto sotto arresto per quasi un mese in tre diversi luoghi di prigionia. Mi hanno picchiato diverse volte con oggetti di plastica e di metallo o a mani nude. Mi hanno messo un sacchetto in testa perché non potessi vedere da dove arrivavano i colpi. Per terrorizzarmi, mi hanno minacciato di torturarmi con scariche elettriche. E un giorno tre prigionieri mi hanno portato in una cella al piano di sopra e lì mi hanno stuprato.” Farid continua a raccontare con voce lenta e imperturbabile. Questa non era la sua prima volta in prigione. Era già stato un mese in carcere a Homs, prima di venire in Libano. Non a causa della sua omosessualità, che in Siria nascondeva bene per evitare l’intolleranza e il rifiuto della società, ma per essere sospettato di essere un oppositore del regime. Il confronto tra le due esperienze è rivelatore: “In Siria mi hanno accusato di far parte dei gruppi ribelli armati. Quando sono entrato in prigione, non credevo di uscirne vivo. Pensavo che mi avrebbero fatto fuori. Ne sono uscito solo grazie a un amico che ha pagato i responsabili del carcere. La prigionia in Libano invece è stato come un esilio nell’esilio. Non conosco nessuno in questo paese, nessuno poteva venire a darmi una mano. In fin dei conti, ho subito torture e insulti in entrambi i paesi… a parte le scariche elettriche che in Siria, ovviamente, non erano solo una minaccia, me le hanno inflitte per davvero…” Durante il periodo di detenzione in Libano, Farid ha ricevuto una visita delle Nazioni Unite ed è stato registrato come rifugiato vulnerabile. All’uscita dal carcere ha ricevuto assistenza da Proud Lebanon, un’associazione di difesa delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Ora segue un corso di formazione in infermieristica, nella speranza di essere assunto in un ospedale come assistente infermiere; ma al momento non riesce a trovare lavoro, perché i suoi documenti d’identità sono sotto sequestro in attesa di un probabile processo. Anche per questo, Farid cerca di muoversi in città il meno possibile: “Non mi fido più di restare in un luogo di ritrovo, come una caffetteria… quando cammino per strada mi guardo alle spalle, ho paura della polizia…”. Il suo vero sogno è di far venire in Libano sua madre, rimasta a Homs, e di partire con lei all’estero in un paese più tollerante e sicuro. Il nome dell’intervistato è stato cambiato per proteggere la sua identità |