L’occidentalizzazione della Sardegna [di Maurizio Onnis]
Nella polemica contro lo Stato italiano, l’indipendentismo volge abitualmente la sua attenzione alle vicende storiche che hanno portato la Sardegna sotto il controllo dei Sabaudi e poi entro i confini del Regno d’Italia, abbracciando quindi un arco di tempo lungo all’incirca tre secoli. Non a caso, nello spirito di conoscere meglio le radici del nostro presente, punta il dito prima sulla piemontizzazione e poi sull’italianizzazione forzate dell’isola. Tutto con l’obiettivo di capire cosa siamo ora in confronto a ciò che eravamo, un passato e un’identità altre, e a ciò che potremmo essere, un futuro che nel complesso spetta solo a noi scrivere. Nello stesso spirito e con lo stesso obiettivo potremmo modificare questo sguardo retrospettivo e leggere i fatti degli ultimi tre secoli non alla luce di piemontizzazione e italianizzazione, ma alla luce dell’occidentalizzazione della Sardegna. Riprendendo qui in buona parte, con il termine “occidentalizzazione”, ciò che intendeva Latouche in un suo saggio del 1989, intitolato appunto L’occidentalizzazione del mondo e pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 1992. In breve, Latouche analizzava l’espandersi delle istituzioni tipiche dell’Occidente nel mondo conosciuto in epoca moderna e poi particolarmente nel tempo del colonialismo, in contrasto e spesso a spese dei popoli e delle civiltà con cui queste istituzioni venivano in contatto. Esse muovevano dall’Europa ed erano il cristianesimo, l’illuminismo e il capitalismo, veicolati dall’uomo di pelle bianca. Quando scriveva Latouche, avevano già dato il “meglio” di sé, attraverso la tentata cooptazione territoriale e culturale dell’intero globo, ma avevano anche scontato l’opposizione degli indigeni, che si erano scrollati di dosso almeno il dominio imperialista. L’ipotesi dell’applicazione di tale concetto alla Sardegna nasce da più constatazioni. In primo luogo, una constatazione geografica: la Sardegna è un’isola, posta a metà strada tra l’Europa e l’Africa, ponte e terra di passaggio. Uno sguardo neutro alla carta non autorizza nessuno a qualificarla a priori come europea e occidentale. La seconda constatazione è storica: ciò che piemontesi e italiani vollero “donare” ai sardi erano proprio la modernità e le istituzioni che identificano l’Occidente, fino allora assenti dall’isola con l’unica eccezione del cristianesimo, insieme a vantaggi e svantaggi connessi. La terza constatazione ha carattere culturale. Il nostro considerare la Sardegna, solitamente, come europea e occidentale viene proprio dall’aver noi assimilato, con studio e fatica nella scuola italiana, la nozione di un’isola saldata al progresso dai Savoia e dalla Repubblica. Queste considerazioni lasciano intravedere una realtà sottostante. Il Piemonte e l’Italia, già periferia del continente europeo, rispetto al quale erano indietro economicamente e socialmente, acquisirono la Sardegna, terra ultra periferica, considerata arretrata e abitata da selvaggi, come dominio da sfruttare e spingere, volente o nolente, sulla strada della civiltà. Facendosi strumento, appunto, della sua occidentalizzazione. In quest’ottica, la nostra isola può essere trattata, come oggetto d’indagine, non diversamente da come le ultime generazioni di studiosi hanno trattato i territori di Africa e Asia accaparrati dagli europei. E la storia della Sardegna moderna e contemporanea non appare più storia della Sardegna sabauda o italiana: diventa storia della Sardegna occidentalizzata. Ovviamente, non si tratta di capire quando la Sardegna è entrata nel corso della storia occidentale. Sappiamo bene che ciò accadde già in epoca romana, decisamente sotto le insegne di Cristo, e poi pisana e genovese, e poi catalana e spagnola. Si tratta di capire quando la Sardegna è diventata occidentale, quando cioè ha assunto o le sono stati imposti i tratti dell’Occidente, così come lo intendiamo oggi: un sistema di pensiero, d’azione e di governo precisi. Un sistema di pensiero ispirato alla razionalità, d’azione fondata sulla libertà d’impresa, sul rischio e sul capitale, istituzionale basato su democrazia e sovranità popolare. Tutti effetti ultimi di un processo iniziato secoli fa nel Vecchio Continente con Cartesio, l’accumulazione delle risorse agrarie e il loro travaso nella fabbrica, la costituzionalizzazione delle monarchie. Poi maturati e giunti agli effetti dei nostri anni. Un processo che in date e circostanze diverse ha intersecato il cammino della Sardegna e dei Sardi, inglobando l’una e gli altri nei propri meccanismi e trasformandoli col tempo in qualcosa che rientra appunto nei canoni dell’Occidente. È possibile che spostare l’asse del nostro sguardo dalla semplice italianizzazione all’occidentalizzazione dell’isola ci permetta di valutare con più completezza e profondità ciò che è stato. Si tratta perciò di verificare le tappe di questo cammino: quando è iniziato, come si è snodato, a cosa è approdato. Individuarne e analizzarne poi pregi e difetti, in chiaroscuro, per capire in sostanza quanto abbiamo dato, quanto abbiamo preso e soprattutto quanto abbiamo smarrito nello scambio. Rispondere infine a una domanda decisiva: la Sardegna è Occidente? Si dice spesso che la Sardegna non è Italia. E se i confini della nostra “non appartenenza” andassero spostati ancora più in là?
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