Rodotà: “Le leggi speciali sono inutili. Sui diritti non si tratta” [di Silvia Truzzi]
Il Fatto quotidiano, 14 gennaio 2015. Intervista a Stefano Rodotà . C’è tutto d’indicibile in quello che è accaduto a Parigi: la violenza, la paura, il pericolo, il dolore. Eppure tutto deve restare dicibile. Perché? Stefano Rodotà risponde così: “Per salvare la democrazia non si può perdere la democrazia”. I diritti non sono se non assoluti e sempre garantiti: il problema – e non è questione da poco – sorge quando i diritti sembrano trovarsi in contraddizione, quando affermarne uno (la sicurezza) rischia di negarne un altro (la libertà). Professore, in questi giorni qualcuno ha sostenuto che la libertà di manifestazione del pensiero ha dei limiti. E molti altri hanno detto che si devono accettare anche le manifestazioni estreme di libertà di pensiero: è una tesi terribilmente impegnativa, implica un’assoluta coerenza nell’applicazione. Allora vorrei far notare che al corteo di Parigi c’era anche Vicktor Orban, il primo ministro di un Paese – l’Ungheria – che ha represso in modo radicale la libertà di pensiero. E l’Unione europea non ha usato i poteri che le sono attribuiti da Maastricht per intervenire. Voglio dire: non basta affermare il primato delle libertà, bisogna trarne una serie di conseguenze. I diritti non sono a senso unico, secondo le convenienze. Un limite è costituito dai reati d’opinione: la più recente discussione riguarda il negazionismo. Molti in Italia – tra storici e giuristi – si sono opposti a che il negazionismo fosse considerato un reato; in altri Paesi è stato previsto come tale. Ho più volte spiegato le ragioni della mia contrarietà. Però è ovvio che se un fatto costituisce reato questo è certamente un limite: se ci sono reati, vanno perseguiti. E dunque se c’è apologia del terrorismo, bisogna procedere di conseguenza. Il diritto alla manifestazione del pensiero però deve essere garantito sempre e nei confronti di tutti, non può essere applicato a intermittenza, con diversi pesi e misure. Sarebbe rischioso, alla luce del conflitto che si è aperto. Siamo in “guerra”? E’ una parola sbagliata, che conduce direttamente alla tesi dello scontro di civiltà. C’è un problema che riguarda situazioni specifiche: l’orrore di Boko Ha-ram, le aggressioni di al Qaeda, le violenze omicide dell’Isis. Non esiste in astratto una guerra tra democrazia e fondamentalismo. Se si afferma che siamo in guerra, le tutele che riguardano i diritti possono essere messe in discussione. E allora ci troviamo su un terreno scivoloso e pericoloso. Dopo l’11 settembre presiedeva il gruppo dei garanti per il diritto alla riservatezza della Ue. Ho negoziato duramente con gli Stati Uniti per impedire che una serie di diritti dei cittadini europei – per esempio quelli riguardanti la raccolta dei dati personali dei passeggeri negli aeroporti – fossero tanto limitati come il governo americano richiedeva. Nel febbraio 2002 l’American civil liberty union mandò una lettera alle istituzioni governative Usa dicendo che non si poteva chiedere ai cittadini europei di adeguarsi alle norme restrittive che l’America voleva imporre. E anzi sosteneva che loro avrebbero dovuto seguire le indicazioni di tutela dei diritti che venivano dall’Europa. La democrazia vince quando si afferma completamente come tale. “Per salvare la democrazia non dobbiamo perdere la democrazia”: il dibattito si è posto negli anni di piombo, quando si scelse la strada delle leggi speciali. Ai tempi del decreto sul fermo di polizia – uno dei “decreti Cossiga” – ero in Parlamento: votai contro, quando il Pci votò per la fiducia al governo. Riuscimmo a far passare un emendamento che prevedeva per il governo l’obbligo di relazionare sull’efficacia di queste leggi ogni sei mesi. Da quelle relazioni venne fuori che il fermo di polizia non serviva a nulla. Servì, contro i brigatisti, l’isolamento politico, così come fu fondamentale la riorganizzazione delle forze di polizia. La riduzione dei diritti è una risposta facile, che apparentemente rassicura, ma indebolisce la democrazia e non dà strumenti di lotta. Allora come oggi le leggi speciali non servono. Adesso è fondamentale capire se l’organizzazione per il controllo e la prevenzione del terrorismo è adeguata alla situazione. La risposta sembra negativa: è su questo che bisogna agire, ad esempio con un vero coordinemento tra i servizi di sicurezza dei diversi Paesi. È favorevole alla sospensione di Schengen? No. E bene ha fatto il ministro Gentiloni a dire subito che non era d’accordo: ora si è aggiunta anche Angela Merkel. L’Europa non può tornare alle divisioni, negando la libertà di circolazione sul territorio. Sarebbe un atto contro la possibilità di rafforzare il patto tra gli Stati. Tra l’altro l’Italia è entrata tardi negli accordi di Schengen perché non aveva una legge sulla privacy. Da questo non si può tornare indietro. I diritti sono più forti della paura? Certo. E la tutela dei diritti è l’unico fattore di unificazione dei Paesi e di riconciliazione dei cittadini con le istituzioni. E’ molto più facile prospettare misure straordinarie di pubblica sicurezza. Ma è sempre stata una risposta perdente: i diritti non sono in contrasto con l’efficienza organizzativa. E non sono negoziabili.
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