Il sapere umanistico salverà le democrazie [di Dario Antiseri]

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Avvenire.it del 5 febbraio 2015. Ben pochi, ai nostri giorni, abbracciano ancora il pregiudizio del più rozzo positivismo, stando al quale le discipline umanistiche, diversamente dalle scienze naturali, non sarebbero affatto in grado di offrire autentiche conoscenze, nel senso che esse consisterebbero unicamente in cumuli di vuota retorica o in espressioni di passioni scritte al verbo indicativo.

E, tuttavia, come è apparso anche dai recenti «processi al Liceo classico», un’altra insidiosa e apparentemente convincente accusa è stata sferrata contro le discipline umanistiche e, di conseguenza, contro una presunta e dannosa inattualità del Liceo classico: certo, le discipline umanistiche offrono conoscenza, solo che si tratta di «conoscenza superflua». L’accusa è pur grave, ma è essa anche valida?

Nel suo recente lavoro Non per profitto. Perché le democrazie «hanno bisogno» della cultura umanistica, Martha Nussbaum fa presente che «non c’è nulla da obiettare su una buona istruzione tecnico-scientifica». Ma subito dopo confessa di sentirsi preoccupata per il fatto che «altre capacità altrettanto importanti stiano correndo il rischio di scomparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta».

E tali capacità – ella prosegue – «sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come “cittadini del mondo”; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro». Da qui, l’imprescindibilità, nella formazione dei giovani, dell’insegnamento della filosofia, della storia e della letteratura. «Ciononostante – annota amaramente la Nussbaum – gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciar spazio a competenze che producono profitti che mirano a vantaggi a breve termine». Solo che, «quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato».

E tra questi – e non è il solo – c’è il premio Nobel per l’economia Edmund S. Phelps, il quale soltanto pochi mesi fa ha ribadito che «le economie oggi mancano di spirito di innovazione. I mercati del lavoro non hanno solo bisogno di maggiori competenze tecniche, ma richiedono sempre più soft skills come la capacità di pensare in modo fantasioso, di elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi, di adattarsi a circostanze mutevoli e a vincoli nuovi».

Ed ecco, allora, che «un primo passo necessario è quello di reintrodurre le materie umanistiche al Liceo e nei corsi di studi universitari. Studiare letteratura, filosofia e storia sarà d’ispirazione ai giovani che aspirano a una vita ricca, una vita che permetta loro di offrire dei contributi creativi, innovativi alla società».

Viene qui da chiedere a tutti gli scientisti e a quegli economisti nostrani con toga da pubblici ministeri nei processi al Liceo classico: è in errore Phelps? Sono sulla cattiva strada Stati come la Cina e Singapore, dove sono state attuate vaste riforme dell’istruzione tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici sia nell’istruzione di base che in quella superiore?

«L’arte e la storia – ha scritto Ernst Cassirer – sono gli strumenti più validi per un’indagine sulla natura umana. Senza queste due fonti di informazione, che cosa si potrebbe conoscere dell’uomo? […] Sia la storia che la poesia sono organi per la conoscenza di sé, strumenti indispensabili per la costituzione del nostro universo umano». E, con Cassirer, Noam Chomsky: «Si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica».

La dispotica dicotomia tra “cognitivo” (o scientifico) ed “emotivo” (o artistico) è, come ha mostrato Nelson Goodman, semplicemente inconsistente: «L’esperienza estetica e quella scientifica hanno entrambe un carattere fondamentalmente cognitivo». Ebbene, di questo ingente patrimonio di “conoscenza artistica“, della portata formativa della “disputa filosofica“, della consapevolezza offerta da quel sapere storico senza del quale non sappiamo chi siamo e come siamo diventati quello che siamo, ebbene, di tutta questa umana ricchezza intellettuale e morale dobbiamo forse defraudare i nostri giovani e soprattutto quelli che, lasciando il Liceo scientifico, frequenteranno corsi universitari ad esclusiva impronta tecnologica e naturalistica?

È fuor di dubbio vero che non si può essere ricchi e stupidi per più d’una generazione, per cui è pienamente giustificata l’attenzione alla ricerca e alla istruzione tecnico-scientifica. Ma poiché «nulla vi è di più pratico che una buona teoria», sarà bene tener presente quanto ammoniva John Dewey, e cioè che «non ci si guadagna molto a tenere il proprio pensiero legato al palo dell’uso con una catena troppo corta». Da qui una doverosa e attenta riflessione sul dibattuto problema dei rapporti scuola-lavoro, nel preciso senso che dalla scuola non dovrebbero uscire giovani che abbiano appreso un mestiere, ma giovani che siano in grado di poter cambiare mestiere.

D’accordo, potrà, a questo punto, forse dire anche più d’un incallito “scientista”; solo che costui si affretterà ad avanzare la proposta che i giovani del Liceo classico vengano almeno liberati da quella antica e mai scongiurata tortura costituita dalle “infinite” e “inutili” versioni di greco e di latino. Eppure, guarda caso, fu proprio un matematico ed epistemologo come Giovanni Vailati ad affermare che l’insegnamento del latino nelle scuole secondarie italiane «rappresenta una opportunità unica, e della quale avremmo gran torto di non trarre tutto il possibile partito».

Ma, a parte questa autorevole testimonianza, quanto sull’argomento va fatto notare è che, se sono nel giusto Popper e Gadamer (e non solo loro, ovviamente), allora pratiche didattiche tradizionalmente legate alle discipline umanistiche come il tema argomentativo, il riassunto, tentativi di storiografia locale e soprattutto le versioni di greco e di latino sono autentico lavoro di ricerca, lavoro scientifico in quanto soluzioni di problemi e non esecuzioni di esercizi. E se l’esercizio addestra, è il problema che forma.

E, allora, non sarà che – laddove gli esercizi, per esempio di matematica o di fisica, vengono tante volte camuffati da problemi – in qualche Liceo scientifico della nostra Penisola, l’unica pratica scientifica resta la versione di latino?

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