Vantaggi e Svantaggi dell’Università della Sardegna [di Antonietta Mazzette]
Da alcune settimane si è ricominciato a dibattere sulla cosiddetta Università della Sardegna, discettando su dove collocare il Consiglio di amministrazione: Oristano, Nuoro, chissà! Non è ben chiaro se il cuore della proposta sia quello di una fusione dei due atenei sardi o se, più limitatamente, sia quello di una federazione governata da un unico organo collegiale. Comunque, un unico consiglio di amministrazione significa che, giacché l’università di Sassari è più piccola di quella di Cagliari, si ritroverebbe ad essere, per così dire, “un azionista di minoranza“, con meno peso economico e meno rappresentanza politico-culturale. Considerato che le previsioni sul futuro delle università non inducono ad essere ottimisti, scarsi finanziamenti e costante riduzione dei docenti si potrebbero tradurre in scelte quali, ad esempio, accorpamento dei corsi nel caso in cui ci siano duplicati. Ossia quasi tutti, esclusi quelli di Agraria e Veterinaria e forse Medicina. Le raccomandazioni di andare verso federazioni o fusioni erano contenute nella Legge Gelmini, ma non è un caso che il sistema universitario italiano le abbia largamente ignorate. Non mi risulta che in Lombardia, Toscana, Emilia Romagna etc. qualcuno si sia appassionato a questo tema, per cui il nostro è un dibattito tutto locale. Ma non sottovaluto le argomentazioni che stanno alla base degli interventi di alcuni studiosi cagliaritani ed entro nel merito. I due atenei sardi si collocano stabilmente nelle graduatorie in una condizione mediana; quello di Sassari si ritrova spesso ai vertici delle graduatorie delle università medie. Con tutta la diffidenza che si deve avere verso dette graduatorie, ciò dimostra che il sistema universitario sardo è sano e forma laureati di media e buona qualità, con alcune eccellenze. Si pensi ai diversi casi di successo di cui scrive Giacomo Mameli. Naturalmente, i problemi delle due università sono destinati a crescere, tanto per il costante assottigliamento dei fondi e l’assenza di turn over, quanto per la debolezza strutturale del sistema economico sardo. Debolezza che incide negativamente su alcuni indicatori e dunque sulla dotazione dei finanziamenti ministeriali, quali tasse non elevate, scarsa occupazione dei laureati, poca attrattività di studenti provenienti dal di là del mare. Se questa sommaria descrizione dello stato delle cose ha un fondamento, la proposta di Università della Sardegna esige almeno due domande: quali vantaggi e quali costi comporta? Tra i primi certamente vanno asseverati risparmio (compreso quello riguardante il capitale umano), efficienza e maggiore razionalizzazione dell’offerta formativa. Per ciò che riguarda i costi, invece, è necessario chiedersi se questa “nuova” università avrà o no un incremento di iscritti, se potrà essere di maggiore qualità, di quale natura saranno gli effetti sul territorio, a partire da Sassari, giacché, probabilmente l’ateneo di Sassari subirebbe i maggiori sacrifici. Ho molti dubbi che ci sarebbero incrementi di iscritti. Com’è noto, i giovani del Nord Sardegna se scelgono di non studiare a Sassari non vanno a Cagliari, bensì fuori dall’Isola (Pisa, Perugia, Pavia, Torino). Mentre i giovani che rischiano di non poter studiare a Sassari andrebbero a infoltire le fila di coloro che non studiano e non lavorano. Sulla qualità non saprei se un’unica struttura universitaria possa essere un migliore laboratorio di idee oppure no. Mentre gli effetti sulla città di Sassari sarebbero devastanti. La sua storica università, dopo l’Azienda sanitaria, è la più grande azienda del Nord Sardegna e una sua riduzione costituirebbe un evidente danno economico per il territorio. A tutto ciò aggiungo che la proposta di Università della Sardegna è un elemento di un puzzle più grande che va in una sola direzione: concentrare peso politico, risorse materiali e culturali verso l’area metropolitana di Cagliari. Si pensi alle politiche più recenti riguardanti gli assetti istituzionali, la mobilità, i porti. Ciò che però stupisce è il fatto che le classi dirigenti della vasta area territoriale del Nord-Sardegna siano silenti, come se ciò di cui si sta discutendo fuori dai loro confini sia di scarso interesse. |