Biomasse, energia e consumo di suolo [di Giuseppe Pulina]

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L’articolo è una sintesi della Relazione tenuta in occasione dell’iniziativa “La buona terra. Fonti energetiche e impatto su suolo e ambiente in Sardegna”, organizzata dalla Presidenza regionale e dalla Delegazione di Cagliari del Fondo Ambiente Italiano, a Cagliari Giovedì 19 febbraio 2015 e che ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica la sottrazione del suolo agricolo alla produzione del cibo al di fuori da qualsiasi programmazione da parte delle istituzioni autonomistiche della Sardegna. (NdR).

Le cosiddette “agroenergie” sono un comparto che ha visto in questi ultimi anni la crescita dell’occupazione, a volte disordinata, delle superfici agrarie in tutta la Sardegna. Il loro vantaggio, per chi le intraprende, deriva dal pagamento incentivato del Kwh (incentivato dai consumatori, ben inteso) che ha spiazzato la convenienza all’utilizzo della terra per uso alimentare e ha concentrato l’interesse di gruppi industriali (a volta di grosse dimensioni) sulle tecnologie per la loro produzione.

Il dibattito sulla eticità della sottrazione dei suoli sardi alla destinazione alimentare deve, però, tenere conto del fatto che gli imprenditori agricoli scelgono gli ordinamenti colturali e le destinazioni delle relative produzioni in base alla convenienza economica, per cui il problema va riportato alla domanda di base: è corretto che si creino rendite energetiche con provvedimenti normativi a scapito dell’uso primario della terra che è quello di produrre alimenti per uomini e animali?

Anticipo la mia risposta: in un mercato aperto, siamo noi cittadini che dobbiamo, da un lato pagare gli alimenti per quel che valgono e, dall’altro, rifiutarci (con atti di natura politica) di pagare un prezzo drogato dell’energia, seppure derivante da fonti cosiddette rinnovabili, se ciò contrasta con la destinazione primaria dei suoli agricoli.

Vediamo la dimensione del problema in Sardegna, esaminando il caso delle biomasse da graminacee. Nel riquadro tecnico in calce a questo articolo riporto i dati forniti dall’agronomo Alessandro Mazzette che opera nel settore. Come si vede, gli agricoltori hanno oggi notevoli vantaggi a produrre biomasse rispetto all’uso alimentare delle stesse e, se firmano contratti di fornitura ai biodigestiori alle condizioni illustrate, a mio avviso fanno bene.

I vantaggi del modello dei piccoli digestori, rispetto a quello, a grandi dimensioni a biomasse basato, ad esempio, sull’impiego di canne per la produzione di bioetanolo di seconda generazione, sono che:
a) è diffuso sul territorio in piccoli appezzamenti con impatti paesaggistici e agro ecologici limitati;

b) ha un prezzo di opportunità poiché, laddove il valore di latte e carne aumentasse significativamente (anche per le nostre scelte alimentari), l’agricoltore immediatamente può indirizzare la stessa produzione verso la via alimentare;

c) è altamente efficiente in quanto il mais, pianta C4 (la canna è C3), è in grado di valorizzare al massimo la fotosintesi;

d) non comporta impieghi del suolo pluriennali o la riduzione della fertilità dello stesso, a patto che l’agricoltore usi le corrette agrotecniche, cosa che è, comunque, “costretto” a fare per poter avere diritto ai titoli premiali dell’Unione Europea.

Perché, quindi, al posto della canna, coltura a bassa efficienza produttiva per unità di acqua utilizzata e particolarmente infestante (occorrono 3 anni di diserbo totale per venirne a capo) non si coltiva la barbabietola da zucchero coltura ben conosciuta in Campidano, il cui alto tasso zuccherino (21-24%) è impiegabile per produrre etanolo di prima generazione e i cui residui (le polpe esauste) costituiscono un utilissimo mangime per pecore e vacche?

Oppure, perché non la paglia del cardo già coltivato per Matrica su ampie superfici che, essendo costituita da lignocellullose, è impiegabile al pari della canna negli stessi processi per la produzione del bioetanolo di II generazione? Un ultimo aspetto riguarda le cosiddette “serre solari”, supporti per pannelli fotovoltaici travestiti da serre. Sarei contento di visitare impianti nei quali si svolga convenientemente una funzione agricola. Per il momento mi risulta che la forte competizione per i fotoni, particelle cariche di energia che sono utilizzate dai pannelli per produrre elettricità e dai cloroplasti delle piante per produrre cibo, non lasci scampo alle seconde. Sempre pronto a ricredermi, però.
Riquadro tecnico (a cura di Alessandro Mazzette)
Alla fine del 2014 la Sardegna conta 10 impianti funzionanti (+ 2 in costruzione zona Guspini) per la produzione di biogas derivante da biomasse di origine vegetale (6 provincia Sassari, 2 provincia Oristano, 2 provincia Cagliari. Gli impianti hanno un potenziale di circa 999 KWe/giorno di energia elettrica. Il funzionamento annuale della turbina è di circa 8.000 ore/anno per un prezzo per Kw di 0.28 Euro. A conti fatti ogni impianto può produrre un fatturato annuale di circa 2,2 milioni di Euro. Sugli impianti pesa un leasing di circa 450 mila Euro l’anno. I costi medi di gestione dell’impianto (amministrazione, agronomica, conduzione, manutenzione) sono di 300 mila Euro.

Quelli di spandimento dei digestati circa 60 mila Euro, gli ammortamenti circa 80 mila Euro. L’approvvigionamento avviene attraverso contratti di affitto e di fornitura di insilato di mais e di graminacee, le terre utilizzate hanno una distanza massima dall’impianto 15 km. Stimando un consumo medio di massa vegetale è di circa 40-45 ton/giorno ogni impianto necessita di una superficie media di coltivazione di 350 ettari da utilizzare per la doppia coltura.

Gli impianti utilizzano inoltre, farine di origine vegetale (mais, grano, orzo) e cruscami (10-20% razione). Oltre alla massa vegetale gli impianti inseriscono in razione liquame bovino-suino letame, sanse d’oliva, siero e scotta per un massimo del 10% sulla razione. Viste la difficoltà di approvvigionamento delle massa vegetale la totalità degli impianti fa ricorso anche all’importazione di materie prime dall’estero. Il costo totale di approvvigionamento dell’impianto è di circa 1 milione di Euro/anno.

I riflessi sull’agricoltura del territorio possono essere riassunti nel modo seguente. I contratti di fornitura prevedono un pagamento dell’insilato di mais di 41 euro per tonnellata e quelli di fornitura per l’insilato di triticale 28 euro per tonnellata. I gestori degli impianti fanno ricorso all’uso di terzisti per la coltivazione raccolta e spandimento dei digestati dei terreni in affitto. Il cantiere di lavoro fa uso in media di 8 operai. Generalmente i digestori posseggono il 50% delle superfici necessarie mentre per il resto delle esigenze si fa ricorso ai contratti di coltivazione. Mediamente ogni biodigestore fa contratti con 6 fornitori i quali coprono i 175 ettari residui necessari all’approvvigionamento dell’impianto.

Il guadagno medio per ettaro è legato alla produzione delle superfici. In Logudoro si stima per la coltivazione del mais (al netto delle spese) un guadagno medio per ettaro di circa 800 Euro. Per il triticale il guadagno medio non supera i 300 Euro/ettaro (ma si possono fare le doppie colture sulla stessa superficie, con minori produzioni unitarie). I fornitori della biomassa sono per lo più allevatori o agricoltori che destinano alla coltura una percentuale dell’azienda che non supera il 20% delle superfici. I gestori degli impianti anticipano ai fornitori i costi per l’acquisto di seme, spese di coltivazione e di concimazione. In sostanza, attualmente la produzione di elettricità da biomasse agrarie in Sardegna occupa una superficie totale di circa 3500 ettari

 

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