Architettura in Sardegna in Età barocca. Due esempi [di Anna Maria Saiu Deidda]
La Relazione è stata elaborata per l’Iniziativa “Alla ricerca della storia perduta”. La storia vera di Diego Henares de Astorga di Nicolò Migheli Hombres Y Dinero di Pietro Maurandi Le Carte del re di Pietro Picciau sono i tre romanzi che hanno animato il II° secondo appuntamento organizzato a Cagliari dalla Delegazione e dal Fai Giovani di Cagliari con la Presidenza regionale FAI Lunedì 2 marzo 2015, ore 16:00 alla Fondazione Banco di Sardegna via S. Salvatore da Horta, traversa viale Regina Margherita/via Torino (NdR). L’idea per la scelta dell’argomento di questo mio intervento sul “paesaggio architettonico” della Sardegna in età barocca viene dall’aver ascoltato, e meditato, durante il nostro precedente incontro, l’osservazione di Graziano Milia sul danno apportato a noi sardi, alla nostra corretta conoscenza della realtà storica in cui siamo vissuti e viviamo, dalla nascita e, soprattutto, dal perdurare, di alcuni miti. Tra questi vorrei indicare alla vostra riflessione quello legato alla supposta “resistenza sarda” agli apporti culturali provenienti dall’esterno che, nel campo dell’arte, si sarebbe manifestata in un “medioevalismo” particolarmente evidente proprio tra Seicento e Settecento come “persistenza di motivi e stili arcaici”, per una “sensibilità aniconica”, un tipico “gusto planare-cromatico”, e per un deciso rifiuto delle forme classiche. Dando per scontato che i presenti conoscano i numerosi edifici cagliaritani che si distribuiscono fra la costruzione della Chiesa e del Convento di Sant’Agostino (del 1577), e la Chiesa di Sant’Anna (terminata ai primi dell’Ottocento), passando per la costruzione e l’arredo della Chiesa di san Michele (che si colloca fra il 1674 e il 1764), io mi soffermerò soltanto sul Santuario dei Martiri nel Duomo di Cagliari e sulla Cappella della Pietà nella chiesa del Santo Sepolcro, le cui forme sembrano adatte a smentire il mito della supposta ‘separatezza’ della Sardegna dal mondo culturale che le sta intorno, che, lo ripetiamo, sarebbe all’origine di una autonoma scelta di temi e motivi arcaici e, in particolare nel campo delle forme, del rifiuto di quelle rinascimentali, per una sorta di “naturale anticlassicismo“. Mito che ancora oggi tende a riemergere nel sentire comune. Il Santuario dei Martiri nel Duomo di Cagliari. Lasciando da parte, perchè evidentemente inaccoglibile, la collocazione del Santuario dei Martiri (inaugurato nel 1618), nell’ambito del cosiddetto “filone popolaresco”, noi cercheremo di analizzarlo partendo da una lettura che lo vedeva come una manifestazione del classicismo rinascimentale. E, certamente, la sua struttura e il carattere stilistico della sua decorazione mostrano la conoscenza delle forme rinascimentali da parte degli artisti che vi lavorarono, ma mostrano anche una intenzione, una sensibilità, in qualche modo molto più aggiornata di quanto non lo sarebbe stata quella rinascimentale, proprio perchè è stato progettato e costruito ormai nel primo ventennio del secolo XVII quando, come è noto, il ricorso al Classicismo sembrava l’unica possibilità di rinnovare il linguaggio dell’arte e superare l’ormai esausto Manierismo. Il santuario è ricavato sotto il presbiterio della antica cattedrale romanica di Cagliari per volere dell’ Arcivescovo Esquivel che doveva aver dato precise indicazioni sul carattere e le forme che essa avrebbe dovuto avere. Fece, infatti, chiamare dalla Sicilia gli scultori a cui sarebbero stati affidati i marmi, mentre i migliori maestri muratori della città di Cagliari erano impegnati nel taglio delle pietre occorrenti per la struttura. Ed è verosimile che proprio a questi ultimi si debbano gli intagli della bella volta dell’ambiente centrale, interamente ricoperta da una ricca e varia decorazione dal pregnante significato simbolico, caratterizzata dal ritmico ripetersi della punta di diamante all’interno di un cassettonato ‘classico’ come nella chiesa di sant’Agostino di Via Baylle. Si accede al Santuario attraverso due porte, ricavate ai lati della balaustrata del presbiterio , per due scale marmoree che portano alla nicchia in cui fu collocato il Monumento funebre dell’Arc. Esquivel, eseguito dallo scultore comasco Antonio Serpi su disegno del romano Francesco Aurelio, ai piedi di un dipinto con il Crocifisso attorniato da Santi. Si divide in tre ambienti, dei quali quello centrale, dedicato alla Madonna dei Martiri , ospita, come vedete, sculture e arredi che mostrano forme legate al Manierismo maturo, ma ancora in linea con lo stile del tempo. I muri perimetrali e quelli divisori contengono le piccole arche marmoree con le reliquie dei presunti Beati Martiri ritrovate durante gli scavi operati, a partire dal 1615, nelle più antiche aree cimiteriali di Cagliari (in particolare nell’area di San Saturnino e di San Lucifero. Ogni reliquiario è costruito come una piccola edicola timpanata che ospita l’immagine a bassorilievo del santo, o dei santi. Edicole e bassorilievi, che furono affidati allo scultore siciliano Monserrato Carena, sono dipinti a tinte vivaci, nello stile che sarebbe divenuto tipico delle immagini devozionali. Tutto nel Santuario è vivacemente colorato, nell’intento evidente di coinvolgere la sensibilità del fedele anche attraverso la varietà dei motivi decorativi el’originalità, un carattere a suo modo formale che gli eruditi cronisti dell’epoca esprimono col termine ‘curioso’, che potremmo interpretare come la capacità di “suscitare meraviglia”, secondo le più diffuse poetiche contemporanee. Ed è significativo che proprio l’originalità, cioè proprio la differenza evidente fra le opere medioevali “recuperate” (e riconsiderate alla luce della religiosità controriformata per la loro capacità di suscitare devozione), e l’arte contemporanea, sia stato l’elemento posto a costituire la base di un giudizio che diviene, per forza di cose, anche giudizio estetico, in una delle espressioni più ricorrenti nel Santuario de Caller (1624), di Serafino Esquirro. Infatti, proprio il fatto che molto spesso egli si servisse dell’espressione “muy devoto y curioso” riferendosi ad opere d’arte, sia nel caso di quelle ritrovate durante gli scavi, sia nel caso di quelle che gli apparivano più interessanti nel Santuario dei Martiri, dimostra che non è sempre verificabile il carattere ‘conservativo’ e ‘attardato’ delle opere d’arte della Sardegna in età barocca. In generale il tono delle rappresentazioni nelle edicole con i santi è realistico, corrisponde bene al fervore religioso popolare dell’epoca e alle immagini dell’opera agiografica contemporanea, già citata, di Serafino Esquirro. La volta dell’ambiente centrale è a botte, ma ribassata e segnata da un sottarco, dettaglio che riporta anch’esso alla chiesa di San Saturnino, e questo è forse indicativo di una precisa volontà di riferirsi alla costruzione cristiana ritenuta più antica della città di Cagliari, mentre la copertura a volta ribassata ha un possibile modello rinascimentale in cripte costruite, su progetti del Bramante, sotto il coro del Duomo di Pavia, come anche nel notissimo “Succorpo” in cui a Napoli si conservano le ossa di San Gennaro. La stessa varietà dei motivi decorativi nei lacunari di questa volta che è, forse, l’aspetto più sottolineato in questa fabbrica per indicarne il carattere ‘autoctono’, e in qualche misura ancora attardato sullo stile medievale, non era affatto estranea alla decorazione rinascimentale. E non è inutile ricordare che la varietà dei motivi decorativi nei cassettonati classici è un carattere molto diffuso anche nel Seicento. Pensata per accogliere le spoglie dei presunti Beati Martiri cagliaritani, la cripta è, dunque, un esempio interessante dell’arte originatasi in periodo controriformista, e perciò è necessario considerarla tenendo conto delle forme dell’arte nel primo ‘600 nel territorio italiano, con il quale la Sardegna, essendo al centro del Mediterraneo, aveva contatti frequenti, in un momento storico in cui il fatto che buona parte della penisola italiana dipendesse dalla Spagna favoriva una naturale circolarità di uomini e di idee. Come è noto, dopo il lungo periodo del Concilio di Trento (1543-1563) numerosi Vescovi sardi, al loro ritorno in Sardegna, si erano adoperati per obbedire al dettato conciliare anche per ciò che riguardava le strutture architettoniche necessarie alle nuove esigenze del culto. Certamente essi avevano avuto modo di sapere ciò che si faceva fuori dall’isola, e in particolare a Roma dove, ad esempio, nel 1590, si era intervenuti per sistemare l’antica cappella privata dei Papi (detta del Sancta Sanctorum per il gran numero di reliquie conservate in singoli tabernacoli), accanto a S. Giovanni in Laterano. I lavori per la cripta cagliaritana avvenivano mentre in tutto il mondo cattolico, e a Roma in particolare, fervevano le opere di scavo sistematico di tutte le aree catacombali, e si procedeva al restauro e all’abbellimento delle più antiche chiese, in un momento di accesa religiosità, che portava a riconsiderare e ad apprezzare le forme più antiche dell’arte cristiana, di cui si hanno documenti interessanti anche per la Sardegna (ad es. nelle acquasantiere decorate da pesci). A dare una ulteriore testimonianza della “modernità” dell’impresa dell’Arc. Esquivel può essere utile sottolineare che, tra le iscrizioni conservate nella cripta, se ne trova una che trascrive la lettera inviatagli, in risposta alla sua relazione sui ritrovamenti di reliquie a Cagliari, da Paolo V, il Pontefice che, proprio negli anni in cui a Cagliari si costruiva il Santuario dei Martiri, creava l’ambulacro dal quale si accede alle Grotte Vaticane, nella cui volta si ricorda la traslazione delle reliquie “dei corpi di molti Santi” nell’anno 1617. Edifici simili al santuario cagliaritano si trovano in diversi luoghi, e se una sensibilità ‘anticlassica’ si dovesse riconoscere ad alcuni aspetti di questo monumento non può che essere quella propria dell’ “arte senza tempo”, messa in luce da Federico Zeri, tipica di un periodo nel quale ci si sentiva molto legati ai primi secoli del Cristianesimo, dei quali ci si affannava a recuperare temi, motivi decorativi, e tecniche artistiche che non potevano non avere influenza sulle forme stesse. La Cappella della Pietà nella chiesa del Santo Sepolcro a Cagliari (1686). La costruzione della Cappella della Pietà si deve al Vicerè Antonio Lopez de Ayala , che la volle come un ex-voto per la guarigione della figlia Abelanna, guarigione che avrebbe ottenuto per intercessione della Vergine della Pietà, la cui immagine, arcaicamente scolpita nel legno, era stata “miracolosamente” ritrovata proprio nell’area in cui sarebbe sorta la cappella, all’interno della più antica chiesa del Santo Sepolcro in cui aveva sede l’Arciconfraternita dell’Orazione e della Morte. Essa dovette essere inserita a forza nell’organismo più antico della chiesa, utilizzando, oltre allo spazio residuo fra l’edificio e l’incombente costone roccioso della Costa (l’attuale Via Manno), anche quello relativo a due cappelle laterali sul suo fianco sinistro. E’ datata al 1686, in un momento che vede in tutti i centri dell’isola impegnativi lavori di ampliamento e di ristrutturazione di antiche strutture, e a Cagliari la costruzione ex-novo di edifici significativi che tengono conto ormai di modelli aggiornati sulle forme del Barocco.La Cappella della Pietà, la cui pianta centrale è basata su un ottagono a lati diseguali, si inserisce molto bene in questo contesto anche per il suo spazio particolare, illuminato dalla luce proveniente dalle finestre aperte nell’alto tamburo che sostiene la cupola. Uno spazio unitario, di grande respiro nell’apertura suggerita dai quattro archi di sostegno, coincidenti con i lati lunghi dell’ottagono. Purtroppo, ancora oggi rimane aperto il problema dell’individuazione del suo architetto, che non dobbiamo necessariamente supporre estraneo al contesto isolano, se non per la formazione e, soprattutto, per i modelli culturali di riferimento. Si può osservare però che i suoi caratteri stilistici sono simili a quelli che si notano nelle architetture che si possono riferire a Domenico Spotorno, impostati sulla esperienza del gusto tardomanierista, eppure inclini ad esprimersi con una forza già barocca. In mancanza di documenti sul suo autore, non rimane, dunque, altro da fare che tentare di individuare un modello di riferimento per la sua pianta così particolare. Al momento sembra plausibile che il suo ideatore abbia potuto conoscere un vero e proprio modello dell’architettura a pianta centrale, dei primi decenni del Seicento, nell’Italia meridionale: la Cappella del Tesoro di San Gennaro, costruita da Francesco Grimaldi, tra il 1608 e il 1618, all’interno del Duomo di Napoli, che presenta anch’essa un impianto basato sulla figura dell’ottagono a lati diseguali, e copertura a cupola. Francesco Grimaldi, il quale, oltre che a Napoli, aveva lavorato a Roma in Sant’Andrea della Valle, fu costretto dai suoi committenti a trovare una soluzione a pianta centrale, perchè essa avrebbe consentito di sfruttare al meglio lo spazio a loro disposizione, non grande e ricavato tra il duomo e una via publica, ripiego che non gli impedì di ottenere un edificio originale. Il disegno della pianta della Cappella del Tesoro risulta, infatti, assolutamente innovativo, soprattutto se lo si considera nell’ambito del Classicismo seicentesco, che vede in generale la cultura artistica rivolta al culto dell’antico atttraverso l’opera di Raffaello. Infatti l’ascendente più significativo dell’opera del Grimaldi è forse da individuare nella pianta elaborata da Raffaello, intorno al 1519, per la Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo a Roma, che Francesco Grimaldi poteva aver avuto presente nella sua esperienza romana, dato che quella costruzione era stata interessata a diversi lavori di completamento che si conclusero addirittura nel 1655. Nel progetto per la Cappella Chigi, Raffaello (che deve adattarsi a un piccolo spazio che si trova tra l’edificio della chiesa e le mura cittadine accanto alla Porta del Popolo) tiene conto delle novità proposte dal Disegno per il nuovo San Pietro del Bramante, ma gli conferisce una sua fisionomia particolare nel ricavare con decisione, tagliando gli angoli retti, un ottagono dai lati diseguali, sui quali si sarebbe impostato il tamburo per la cupola. Sdoppia i pilastri di un ideale quadrato, li allontana e li collega con un muro diagonale “sostituendo ai due cateti del triangolo rettangolo la sua ipotenusa” ; ottiene così il raddoppio dei lati del quadrato di base, e insieme dilata il volume centrale, sia pure a spese delle cappelle laterali, che vengono ridotte a semplici altari. A questo punto del nostro discorso può essere utile ricordare che esistono alcuni altri edifici che sembrano riferirsi allo stesso principio progettuale, e che possono costituire gli elementi di una serie che arriva fino all’ultimo quarto del secolo XVII, fra i quali ricordo solo il Cappellone della Chiesa del Purgatorio a Gravina di Puglia, appartenente alla Confraternita del Purgatorio, che dobbiamo ritenere concluso tra il 1663 e il 1675. Per la sua pianta ottagonale irregolare e per il tipo di copertura a cupola, risulta al momento l’edificio che presenta la maggiore vicinanza cronologica e, per il disegno della pianta, le analogie più stringenti con la nostra Cappella della Pietà . In modo analogo a quanto era accaduto per la Cappella Chigi e per la Cappella del Tesoro di San Gennaro, a Cagliari, nella Cappella della Pietà, si dovette tenere conto di uno spazio molto angusto, e forse irregolare. Ciò comportava che tutto l’organismo architettonico fosse strutturato sui pilastri che sorreggono, tramite i pennacchi trapezoidali, il tamburo della cupola che nella composizione a spicchi conserva l’ottagono di base. Una semplice trabeazione, fittamente segnata dalle modanature, corre lungo tutto il perimetro all’imposta del tamburo, seguendo e sottolineando i nodi strutturali con un aggetto molto evidente, che esprime una grande forza, coerente con l’ideologia evidentemente espressa da questo edificio che deve essere considerato un vero e proprio “monumento”, manifestazione della fede religiosa e insieme proiezione di sé e autocelebrazione, da parte del committente, che peraltro agiva in sintonia con le idee e i sentimenti diffusi nella società del suo tempo. Quasi a contrasto con le intenzioni, dichiarate nella scelta della pianta e della copertura a cupola, si pone peraltro la sostanziale semplicità dell’interno: ogni spigolo è percorso da semplici paraste, larghe e poco rilevate che nascono da alte basi modanate; il capitello è composito, poco rilevato; nello spazio lasciato libero dalle volute e dai caulicoli si colloca una croce sormontata da una testa di angelo. Nella decorazione dipinta si riprende il tema della Resurrezione di Cristo. Questo ci fa riflettere sul fatto che al tempo della sua costruzione, anche la scelta della pianta e della cupola rispondevano a precise esigenze di tipo simbolico. La stessa pianta si collega, infatti, al numero 8 che, fin dalla tarda antichità, si riferisce simbolicamente al Cristo e alla sua Resurrezione. Ma nella Cappella della Pietà esiste anche un altro importante motivo di interesse nello splendido retablo ligneo, intagliato, policromato e dorato, un vero e proprio ‘teatro’ allestito per la sacra rappresentazione in cui si inserisce l’immagine della Vergine della Pietà. Con i suoi volumi accentuati anche dal rutilare dei colori e dell’oro, il retablo contribuisce in modo sostanziale alla definizione e alla qualificazione estetica dello spazio della cappella anche perchè, simbolicamente e sinteticamente, ne ripropone le ragioni: insieme essi devono essere considerati un monumentale ex-voto per la Vergine della Pietà, rappresentata da una arcaizzante statua tardo-quattrocentesca, espressione della devozione popolare. Anche per questo aspetto la cappella risulta collegata ad un ampio contesto di edifici sorti ovunque nel mondo cattolico, intorno, o in virtù, di una immagine nella quale il ‘significato’ del soggetto rappresentato era assai più apprezzato del suo valore estetico, e il cui carattere più apprezzabile era spesso individuato soprattutto nella sua capacità di suscitare sentimenti di devozione. Ormai quasi alla fine del Seicento, la costruzione della Cappella della Pietà nelle sue forme così contemporanee, e la rivalutazione della arcaica scultura della Pietà, ripropongono la ’modernità’ di quelle espressioni artistiche, se non sempre per la qualità formale raggiunta, almeno per l’intenzione dichiarata nella scelta tipologica, dei materiali, delle forme decorative, dei modelli, che furono come si è visto, individuati al di fuori dell’isola, e assolutamente contemporanei. La loro attualità è provata anche dalla eccezionale concordanza fra i temi e le forme della tradizione religiosa più antica, paleocristiana e medioevale in specie, e le esigenze più nuove, ugualmente diffuse in tutto il mondo cattolico, a testimoniare che il Santuario dei Martiri nel primo e la Cappella della Pietà nel secondo Seicento, si trovavano al centro di un flusso ininterrotto di scambi e di relazioni che ne fanno dei testi ineludibili per la ricostruzione della cultura e della storia dell’arte in Sardegna in età barocca. BIBLIOGRAFIA
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