Il porcetto negato [di Benedetto Caltagirone]
Ci vorrebbero l’ingegno e la penna di un Alessandro Tassoni per descrivere i venti di guerra che in questi giorni si levano in Sardegna attorno alla figura del maialetto (sardo?) e al problema della sua presenza all’EXPO milanese. Nessuno più del seicentesco autore del poema eroicomico La secchia rapita seppe, infatti, far assurgere ad altezze poetiche una materia risibile e irrilevante come la guerra tra bolognesi e modenesi per il possesso di un vile secchio di legno. Vero è che l’oggetto in questione, che ora fa bella mostra di sé nel Palazzo Comunale di Modena, è diventato in qualche modo simbolo di identità ma, si badi bene, non in quanto improbabile “bottino” di una guerra forse mai combattuta, bensì in virtù dell’inventiva poetica di un letterato. Più prosaicamente a noi tocca affrontare la questione della presenza dei maialetti sardi alla grande fiera milanese dedicata all’alimentazione. A causa della peste suina africana, endemica in Sardegna, il Ministero della Salute ha vietato l’esportazione e il consumo dei maialetti sardi all’EXPO di Milano per prevenire il rischio di un contagio che risulterebbe davvero catastrofico per gli allevamenti continentali. Il divieto di esportazione, che sembra caduto all’improvviso dal cielo come la punizione di una capricciosa divinità nemica dei sardi, è in vigore da anni (banalmente segnalato da cartelli esposti in tutte le stazioni marittime e gli aeroporti sardi), come ben sanno i produttori isolani di salumi che possono esportare i loro prodotti, spacciati per «autenticamente sardi», solo se confezionati con carni rigorosamente certificate come non sarde. L’aspetto serio del provvedimento ministeriale è che esso comporta ricadute economiche negative per gli allevatori di maialetti (ma ve ne sono in Sardegna? E in che numero? E quanti capi si allevano?). L’aspetto risibile sta nel presentare una questione meramente economica travestendola da confuse e poco innocenti motivazioni identitarie, come spesso accade quando il fumo dell’ideologia si leva a coprire la verità dei fatti. Infatti la grancassa mediatica, sorretta dai politici e suonata dai talebani dell’identità, presenta la mancata trasferta dei maialetti a Milano come un duplice delitto: di lesa maestà nei confronti di quello che opinabilmente viene spacciato come il re dei cibi identitari sardi, ma soprattutto di lesa identità poiché il porco in questione non è un porco qualunque, ma un porco sardo e dunque il divieto ministeriale colpendo questa sua sardità finisce con l’offendere non solo la sardità porcina ma (per una specie di curiosa proprietà transitiva di cui, peraltro, ci sarebbe da menare poco vanto) la sardità tout court. È ovvio che non è qui in discussione la valenza del cibo che, come è noto, è uno dei più forti marcatori identitari che si conoscano, bensì l’uso improprio che di essa viene fatto quando i lobbisti del proceddu si travestono da giustizieri dell’identità oltraggiata. Per costoro, fautori di una concezione sostanzialista dell’identità, le categorie di unicità, autenticità, genuinità, purezza sono altrettanti dogmi che vanno applicati a qualsiasi tratto identitario (lingua, religione, storia, musica, poesia e, Dio ci scampi, forse persino progenie) compreso il cibo che, nel nostro caso, si presenta sotto le specie del porcetto. Ed ecco allora che il maialetto arrostito sulle braci viene presentato come un unicum di cui i sardi, specie se pastori dell’interno, avrebbero l’esclusiva mondiale. Inutile dire che le cose non stanno così: in molte regioni italiane, dalla Toscana all’Emilia Romagna, dall’Abruzzo alla Sicilia il maialetto arrosto è ritenuto una specialità locale. Per non dire poi di quella modalità di cottura delle carni detta «a carraju» che molti sardi, compiacendosene, ritengono la più «barbara» di tutte e perciò stesso solo sarda. Essi rimarrebbero delusi nel sapere che in molte parti del mondo si pratica lo stesso tipo di cottura e che, giusto per restare in argomento, in Polinesia, ad esempio, il maialetto arrostito a carraju è uno dei piatti nazionali. Dovendo scegliere tra dio e mammona i paladini dell’“autentica” tradizione gastronomica sarda non hanno dubbi: di fronte alle supreme leggi del mercato la tradizione deve cedere il passo e si deve adattare: «siamo uomini di mondo, perbacco!», avrebbe detto Totò. Poiché il virus della peste suina muore ad una certa temperatura, i suddetti paladini propongono di pre-cuocere i maialetti in Sardegna e poi di trasferirli a Milano per essere “rifiniti” su un falò (autentico eh!) attorno al quale, possibilmente, intrecciare balli tondi (sempre autentici eh!): straordinaria messa in scena del connubio tra frode alimentare e patacca folkloristica che sempre più spesso vediamo celebrato in decine di sagre e feste per turisti di bocca buona. Alla ricerca del consenso della «gente» i nostri talebani si giocano l’ultima decisiva carta: «come è possibile – essi dicono – che all’EXPO si ammetta la carne di coccodrillo e si proibisca quella dei nostri maialetti?». Domanda che in realtà ne sottintende un’altra: «Come è possibile che al prodotto di una millenaria tradizione culturale – le nostre tradizioni sono sempre millenarie, non ci mettiamo mai per poco – quale è il nostro maialetto arrosto si preferisca un cibo da primitivi e selvaggi come il coccodrillo?». Al di là dell’ovvietà della risposta, e cioè che, a differenza di quella del maialetto sardo, la carne di coccodrillo (ancorché poco saporita) non comporta il rischio di epidemie, quel che importa sottolineare è che in questo rozzo appello alla pancia (è proprio il caso di dirlo) della «gente» si fa leva sul tabù alimentare che generalmente colpisce il cibo dello straniero per riproporre la contrapposizione tra identità e alterità alla quale fa da corollario il solito rancoroso risentimento con cui si autogiustificano i propositi revanchisti di chi si sente sempre ingiustamente discriminato per colpa degli altri. Ma perché insistere con i maialetti? Ben altri possono essere i cibi identitari da portare all’EXPO e di cui noi siamo grandi (e talvolta insuperabili) produttori: formaggio, olio, vino, pane e perché no? pecora in cappotto fatta come Dio comanda. A proposito di pane, tra i primi tre prodotti più venduti all’ultimo Salone del Gusto di Torino (che non è propriamente la sagra della porchetta di Ariccia) c’era il pane dell’azienda Kentos di Orroli. |
Bellissimo pezzo sulle (false) identità dei Sardi. Suggerisco di leggere la riflessione magistrale dello stesso autore nel saggio “Gli inganni dell’identità: Sa Die de Sa Sardigna”, in B. Caltagirone, Identità sarde. Un’inchiesta etnografica, Cuec 2005, pp. 105-263.
Caro professore,
il problema, come Lei dice, è prevalentemente economico e non filosofico o culturale, sebbene il porchetto sardo sia da considerare comunque un prodotto identitario; su questo mi pare convenga anche Lei.
Non vi è turista esterno che non richieda, venendo in Sardegna, il porchetto arrosto, individuandolo come prodotto tipico del nostro territorio.
Certamente ha presente anche Lei che in un economia globale, in un mercato ormai libero e aperto a tutte le transazioni commerciali, come determinato dalle scelte dell’ UE e dell’organismo mondiale del commercio ( WTO ), l’unica difesa possibile è la esaltazione della tipicità e specificità delle produzioni e quindi anche del loro legame con il territorio; almeno questo siamo riusciti ad inculcare nel consumatore, senza imbroglio.
Non mi risulta che in Toscana, Emilia o altre regioni italiane, ove prevale l’uso della graticola più che dello spiedo, il porchetto sia considerato una specialità locale; se si è diffuso nella cucina locale è probabile sia frutto dell’esperienza dei numerosi pastori sardi cha hanno “colonizzato” i poderi mezzadrili toscani o l’appennino emiliano-romagnolo.
Nessuno potrebbe contestare invece che la porchetta laziale sia nata altrove rispetto a tale regione. Condivido che il maiale ha tradizioni di allevamento, e culinarie quindi, in tante altre parti del mondo. In Portogallo ti servono panini a base di porchetto arrosto freddo ( leitao ).
Ma veniamo a bomba. Come Lei ricorda, la peste suina africana è endemica in Sardegna; infatti è presente da 37 anni: Ricordava recentemente il Dott. Sarria, veterinario sardo, che il primo focolaio è stato accertato lo stesso giorno del rapimento dell’On. Moro (ad Elmas il 16 marzo 1978).
Se siamo ancora a questo punto vuol dire che le responsabilità sono tante e diffuse.
L’Unione Europea ha paura della sua diffusione; provate a pensare cosa succederebbe nei paesi ove l’allevamento suino è più diffuso, come l’Olanda , Danimarca e Germania. La peste comunque non è presente solo in Sardegna, ma in Estonia, Lituania, Lettonia, Russia.
Sono queste le ragioni principali per cui la Sardegna è guardata “ a vista “.
Tuttavia la stessa Unione Europa, da lungo tempo, sulla base di dati scientifici, ha stabilito che il prodotto cotto ( termizzato a determinate temperature ) non presenta più il virus e ugualmente i prodotti stagionati ( oltre 190 giorni ) come i prosciutti. E allora perché impedire che tali produzioni escano dall’Isola ? Per infliggere una punizione al bambino monello ? Siamo forse figli di un Dio minore ?
L’EXPO’ è stata l’occasione per far scoppiare il bubbone. Dobbiamo ribadire che la stragrande maggioranza delle aziende sarde sono super controllate e a norma; dobbiamo decretarne la fine ?
L’esportazione del porchetto o dei prosciutti fuori dell’Isola può consentire di reggere una situazione sempre più difficile.
Stando agli ultimi dati ,sono presenti in Sardegna ancora 16.000 allevamenti con 166.000 capi di cui ben 64.000 scrofe , dato unico in Italia perché l’allevamento sardo è prevalentemente indirizzato verso la produzione del porchetto. Consumiamo carni suine per 500.000 ql. e salumi per 55.000 ql prodotti al 90% con carni esterne.
Siamo tutti consapevoli che le potenzialità del comparto sono compresse dalla presenza della peste che richiede una lotta corale, ma, intanto, si eviti di negare ai sardi un diritto che è riconosciuto a tutti gli altri cittadini europei.