Dall’ultimo lembo di terra [di Nicola Fiorita]
Questa volta, il primo maggio non sarà dedicato principalmente alla festa dei lavoratori. E non tanto perché i lavoratori hanno poco da festeggiare in questo scorcio di tempo – come direbbe Landini – ma soprattutto perché il rito della festa verrà, almeno in parte, oscurato dall’avvio di Expo 2015, il primo grande evento dell’era renziana. Come è noto, Expo ha come titolo Nutrire il pianeta. Energia per la vita, e si presenta intenzionalmente come “il più grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione”. Al netto dalle polemiche ideologiche e delle inchieste giudiziarie che accompagnano inesorabilmente ogni grande manifestazione che si progetta e realizza in Italia, Expo va caratterizzandosi sempre più come un grande show planetario su uno degli argomenti più sfruttati dal circo mass-mediatico e dalle lobby degli affari in questi ultimi anni: il cibo. Il rischio gravissimo è di confondere in un unico calderone i volti degli chef- icone televisive, la corsa ai superlativi delle pseudo-eccellenze gastronomiche di questa o quella parte del pianeta e la retorica dei buoni sentimenti che copre un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento delle risorse naturali e dei lavoratori, sui disumani allevamenti intensivi, sulla definitiva distruzione delle filiere alimentari naturali. In una parola, Expo rischia di nutrire la componente ricca e grassa del mondo, succhiando ancora una volta energia e vita alla restante parte del pianeta (e al pianeta stesso). Da qui a maggio, e poi lungo tutto il periodo dell’esposizione universale, appare indispensabile mettere al centro del discorso Expo, e dei suoi mille rivoli, almeno quattro questioni: la sicurezza alimentare, lo spreco, il land grabbing, le condizioni di lavoro dei migranti impegnati nell’agricoltura. Se si vuole davvero provare a nutrire il pianeta con cibo non avariato, occorre dunque indicare come priorità assoluta la questione della sicurezza alimentare, da intendersi come diritto di tutti ad accedere ad una giusta alimentazione. Non troppo poco cibo, ma neppure troppo. Il nostro folle mondo è riuscito a generare il problema dell’obesità prima di aver debellato il problema della fame. Strettamente connesso a questo primo profilo, il secondo punto di un ipotetico ordine del giorno non può che essere quello dello spreco alimentare, che è spreco di cibo, ma anche di energia, di risorse, di suolo, di futuro. Ancora, il land grabbing, ovvero il fenomeno di accaparramento da parte di stati ricchi (specie dei nuovi ricchi: Cina, Arabia Saudita, Emirati) di larghe quote di terra degli Stati più poveri, al fine di garantirsi l’approvvigionamento di prodotti e risorse alimentari altrimenti indisponibili. Ettari ed ettari di campi vengono sottratti ai contadini da parte di governi corrotti o disperati per poi essere venduti, a volte addirittura regalati, a Stati o imprese straniere in cambio di investimenti e posti di lavoro, incatenando così la ricchezza della terra e i sogni dei suoi abitanti ad un destino di schiavitù, più o meno dolce. Non solo italiano, ma prevalentemente italiano è il quarto e ultimo punto. Le condizioni di lavoro dei migranti impiegati nel settore agricolo possono essere, lo sappiamo, devastanti. A Rosarno come nelle piazze di raccolta della Puglia sembra di essere tornati un secolo indietro, quando i braccianti erano considerati qualcosa di diverso dagli uomini, quando i loro sentimenti e i loro bisogni non esistevano, quando la miseria chiamava il disprezzo, lo sfruttamento chiamava l’emarginazione, il presente annullava il futuro. Un breve cortometraggio, The dark side of tomato, ha raccontato recentemente questa nuova subalternità fornendo anche una spiegazione documentata di come essa prenda forma e si realizzi. Una storia pazzesca e amara, quella elevata ad esempio dal cortometraggio, che nasce dall’invasione del concentrato di pomodoro italiano (e cinese) nel mercato del Ghana e che ha determinato la fine dell’agricoltura nazionale e la necessità dei ghanesi di emigrare, di venire a raccogliere pomodoro nei nostri campi, in condizioni peggiori di quelle in cui lavoravano nel proprio Paese, arricchendo quelle stesse forze che li hanno messi in ginocchio e li hanno costretti a partire. E’ un pezzo, va da sé, di una storia più grande, quella che produce molte delle migrazioni internazionali grazie alle politiche di liberalizzazione, alla fine dei dazi doganali, alla dissolvenza di politiche protettive e solidaristiche. Se ci si pensa è anche la storia della nostra crisi in molti settori invasi dalla concorrenza cinese. A volte, però, come in questo caso, i cinesi siamo noi. Tutti e quattro i punti riguardano direttamente la Calabria, che vede germogliare il problema dell’obesità infantile accanto ai ricordi di fame e miseria delle generazioni più anziane, che continua a sprecare il proprio suolo indifferente alle tragedie che si susseguono e che sta in coda ad ogni classifica europea relativa alla raccolta differenziata, al riciclo, all’educazione alimentare, che ha regalato e regala la propria terra a chiunque prometta sviluppo e posti di lavoro senza mai verificarne presupposti e fattibilità, che ben conosce il dramma dello sfruttamento dei migranti e della lotta tra poveri che esso può generare. Non sappiamo come la Calabria starà dentro Expo. Il ritardo con cui è partita la progettazione e la programmazione della partecipazione calabrese ad Expo non consente nessuna previsione. Si può solo sperare che proprio da qui, dall’ultimo lembo di terra dell’Europa, vengano iniziative e proposte che nutrano Expo e consentano a questa straordinaria occasione di non andare, anch’essa, sprecata. Soprattutto, si deve fare quanto nelle nostre possibilità perché la programmazione delle attività regionali abbia una ricaduta sul territorio calabrese e dia la stura a politiche di largo respiro sui temi fin qui indicati. * Slega.net |