La detenuta claustrofobica [di Maria Francesca Chiappe]

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Il racconto fa parte di Piccole storie recluse racconti scritti da donne e letti durante il Seminario Michel Foucault: Istituzioni totali e comunità ospitanti all’interno dell’iniziativa Il primo miglio organizzata da FAI Sardegna per la riapertura dell’ex Carcere di Buoncammino il 2 e 3 maggio.

<Dov’è qui la luce>?
<Che te ne fai, è notte, dormi>.
<No… è perché… io devo saperlo…>.
<Tanto dove devi andare>?
<Da nessuna parte ma devo saperlo>.
<Ma perché non la piantate voi due>?
<Eccola, lei>.
<Zitte, uffa, Ho sonno>.
<E ci mancavi pure tu, ora>.
<No, scusate, vi ho svegliato tutte, scusate, non volevo, è che io devo sapere dov’è la luce, non posso stare al buio>.
<La signorina non può stare al buio. Sentite questa. E che altro ti serve? Lenzuola di seta? Asciugamani di lino? Colazione in camera>?
<Lo dico per me ma anche per voi, davvero, non posso stare al buio… ho paura, non vedo, divento cieca, impazzisco>.
<La prossima volta non ti fai prendere e il problema è risolto. Ora piantala>.

La prossima volta, certo, intanto sono qui. In questa stanza fredda e chi se ne frega se c’è freddo, su questo materasso molle, e chi se ne frega se è molle, e il cuscino troppo alto, tanto io faccio senza. Voglio solo sapere dove quel cavolo di interruttore, qui non si vede nulla. Io non ci voglio stare qui, non ci posso stare. E non perché sono innocente, perché non lo sono, o forse sì, dipende dai punti di vista. Mio marito è sparito e posso solo immaginare che si sia messo con la mia amica, sparita anche lei. E io, che scema!, gli ho sempre dato retta, e sono rimasta a casa mentre lui lavorava e portava lo stipendio e quello che mi dava io lo amministravo, ero brava. Se c’era da fare la spesa, pagare le bollette, comprare i vestiti ai bambini lo facevo io, coi soldi suoi. Nostri. E non mi sono mai posta il problema dei soldi, per 15 anni. Prima ci pensava mio padre, mi dava un tanto al mese ma mi serviva giusto per un gelato, una volta al mese, o per andare al cinema con le mie amiche. Non ho mai pensato ai soldi, forse perché non mi sono mai mancati o me li sono sempre fatti bastare. Quello che mi serviva l’ho sempre avuto: mangiavo, mi vestivo, uscivo, avevo tutto. Ma poi quello, cioè, mio marito se n’è andato, con la mia amica, forse, e i soldi sono finiti.

E i figli, due, 10 e 15 anni, maschio e femmina, sono rimasti con me. E sapete quanto mangiano? E quanto telefonano? E quanto sport fanno? E quanto costano libri, quaderni e penne? Come faccio? Sono andata a lavare le scale, anche se un mestiere, uno vero, in teoria lo avrei: sono diplomata ragioniera, potrei fare la segretaria. Ma non l’ho mai fatto, non so neanche da dove si cominci e a 40 anni ormai non mi prende nessuno. Non ho neanche chiesto, in verità, ma tanto lo so: non trovano quelli bravi, quelli giovani, quelli dell’università, figurati se prendono me. Come faccio? Mi aiuta mia madre, che ha la pensione di mio padre, da un sacco di tempo, e poi ci sono anche quelli della chiesa, e i vicini di casa. Quando pulisco le scale del palazzo di via Cugia, pieno centro, roba da ricchi, o quasi, per me sono ricchi, mi danno 7 euro all’ora. In nero. Sono io che non voglio assicurazione: se devo pure pagare le tasse non mi resta nulla, e poi dovrei anche andare da un commercialista, e il tempo e i soldi chi ce li ha… Meglio in nero. Qualche volta vado pure a casa di una signora, e ci sto quattro ore, e poi ho anche un vecchietto da badare che tutti mi dicono “ma come fai”?, ma io lo faccio e non mi fa schifo perché penso che quando toccherà a me, perché prima o poi mi toccherà, toccherà a tutti prima o poi, non voglio che a qualcuno faccia schifo. Non so quanto riesco a mettere insieme perché non li accumulo mai i soldi, li spendo subito.

Dobbiamo mangiare, e siamo in tre, e poi c’è la luce, il gas, il telefono, l’affitto no, siamo tutti in una casa del Comune, almeno quello, e non l’abbiamo neanche dovuta occupare, ce l’hanno data. Sono una donna fortunata.
Io lo so quello che è bene e male, quello che si può fare e no, lo so fin da bambina, la maestra me lo diceva sempre, anche mia madre, e pure il sacerdote, nella predica della domenica quando andavo a messa perché dovevo fare la comunione e poi anche per la cresima, prima di sposarmi.
Non si desidera, non si tradisce, non si ruba.
Io non ho mai desiderato nulla, forse una volta un bel vestito, rosso, scollato sulla schiena: volevo andare a ballare e volevo far colpo su quel bel ragazzo che mi guardava sempre quando andavo a comprare il pane la mattina presto. Ci ero riuscita lo stesso, senza vestito rosso, gli ero piaciuta in jeans e maglietta e mi aveva sposata. Ma quanto l’ho desiderato quel vestito.

E non l’ho mai tradito, io, mai, neppure con il pensiero, neanche quando mi faceva arrabbiare, quando mi mancava di rispetto, mi umiliava perché non lavoravo e non guadagnavo, anche se lo aveva voluto lui. Casalinga. Mai l’ho tradito, sempre solo e soltanto lui nella mia testa e nel mio cuore. Forse per questo mi ha cornificata e mollata. Troppo sicuro.
E figurati se pensavo a rubare, ma siamo matti. Avevo tutto, ho sempre avuto tutto.
Quel giorno, ieri ero lì, al supermercato, e in effetti, peccati o reati, la differenza non mi è chiarissima, li ho fatti tutti e tre.
Da quanto tempo non la mangiavo, da quando ero ragazzina, in cucina, di nascosto da mia mamma, ero un’esperta. Col cucchiaino, ma più spesso direttamente col dito, una bontà assoluta, la arrotolavo senza intaccare il bordo e la leccavo. Lo svuotavo dal centro così il barattolo sembrava sempre pieno. Una goduria per il palato e per il cuore. Non l’ho più comprata. C’è sempre qualcosa di più importante: la carta igienica, gli assorbenti, la carne di tacchino, lo shampoo, il pane.

Ma ieri non ce l’ho fatta. Era lì, in offerta speciale. Una ragazzina ne ha presi due vasetti di quelli grandi. Stavo per chiederglielo: “me ne dai un po’?, me la fai assaggiare, mi fai ricordare com’era dolce la mia gioventù prima di questo matrimonio, di questo abbandono, di questa miseria?” E mano male che ho i figli e almeno mi alleggeriscono l’anima sennò sai che tragedia. Ma non posso mentire, aggiungendo il quarto peccato, dicendo che l’ho presa per loro, le mie creature ormai sono cresciute. No. L’ho presa per me. Avevo un maglione largo, a pipistrello, tipo poncho: è stata un attimo. Pensato e fatto. Ho preso la nutella e l’ho messa sotto l’ascella attraverso la manica larga. Non mi ha visto nessuno, sicuro. Sono andata alla cassa, ho chiesto di passare oltre la fila perché tanto non avevo preso niente, si stavano spostando tutti ma un signore in borghese, mica una guardia, un uomo normale, non lo avevo neppure visto, mi ha detto: “ è sicura di non aver preso niente”?.
L’ho guardato e fulminato con tutta l’innocenza di cui sono capace: <Come si permette>?
<Sotto il braccio che cosa ha>?

Si sono girati tutti verso di me quelli in fila alla cassa, la signorina ha pure interrotto il conto, e nessuno ha protestato, e prova a sorridere e fare una battuta, di solito quelli in fila ti gridano parolacce e se la prendono con quella commessa scansafatiche. Ora, invece… Erano non meno di dieci, mi guardavano con disprezzo, disgusto, e chissà quante volte lo hanno fatto loro o i lori figli adorati o i loro mariti cornuti o i loro genitori corrotti. Mi sono sentita nuda, e ho sollevato il braccio destro, col sinistro ho afferrato il vasetto e l’ho consegnato a quell’uomo minaccioso.
<Ora lo pago>.
<No, ora lei viene con me>.
<Per un vasetto di nutella>?
<Per furto>.

Hanno chiamato i carabinieri, che sono arrivati in quattro e quattr’otto, manco fossi un pericoloso criminale, mi hanno fatto salire in macchina e poi, in caserma, mi hanno perquisita, che vergogna, anche lì, e mi hanno fatto le foto, brutta com’ero per lo spavento e l’umiliazione, e mi hanno messo i polpastrelli, i miei, sull’inchiostro, premendo forte. Mi hanno detto che potevo telefonare al mio avvocato ma io mica ce l’ho un avvocato, a chi telefono? Se chiamo mia madre le viene un colpo e muore lì, su due piedi. E i miei figli, poveretti, che vergogna: la mamma, una ladra. Mio marito chissà dov’è, la mia amica con lui. Non resta che la mia vicina di casa, Clara, così affettuosa con me, comprensiva, buona. Capirà, e mi toglierà fuori dai guai. E poi, il marito è vigile del fuoco, magari ci può mettere una buona parola.
Niente da fare.

Mi hanno tenuta in caserma e poi mi hanno portato qui, in carcere. E’ incredibile quante volte sono passata davanti, l’ho visto ma non l’ho mai guardato, eppure è grande, grandissimo, quelle mura, quel portone, quelle torrette, fa tutto il giro, da Porta Cristina a viale San Vincenzo. Buoncammino. Quante volte mi sono fermata sul viale, quante volte ho guardato il panorama, quante volte ho sognato di vedere un concerto all’anfiteatro e mi sono accontentata delle note che risuonavano proprio lì, davanti al carcere.
Non ho mai saputo come fosse dentro, non me lo sono mai chiesto, non mi ha mai interessato. Chi finisce lì è diverso da me, è altro da me, non è me.
E ora sono qui. Dentro. Lo scatto del portone in ferro mi ha fatto venire i brividi. Le guardie sono spicce ma gentili, non posso dire nulla, mi danno del tu ma anche quando lavo le scale gli inquilini mi danno del tu. In carcere o sulle scale ti danno del tu, al supermercato invece ti danno del lei ma solo se devi comprare, quando vuoi andar via con la nutella sotto l’ascella passano subito al tu. Funziona così. Anche se io sono sempre la stessa, coi miei 35 anni e i mie due figli, il marito scappato, l’amica bagassa e la fatica di andare avanti giorno dopo giorno. Del voi dovrebbero darmi, altro che tu.

Io gliel’ho detto: non ci posso stare in carcere. Ho paura del buio, non posso stare al chiuso, chiamate un medico, portatemi via, in ospedale, piantonata dai carabinieri. Non posso star chiusa, devo avere una via di fuga, datemi la chiave, vi prego.
Non mi hanno ascoltata, o mi hanno preso per pazza oppure fanno tutti così e loro non ascoltano neanche più. Ma io non stavo dicendo bugie. Io non posso davvero stare qui dentro, non posso star rinchiusa, non posso stare al buio. Il buio per me è un nero solido che mi impedisce non solo di vedere ma anche di muovermi, perdo il contatto con la realtà, non capisco dove mi trovo, sudo, il cuore batte all’impazzata, grido ma la voce non esce. Posso morire.

Mi rivolgo, quasi un bisbiglio, alla compagna di cella che dorme nel letto sotto il mio, siamo troppe e ci sono quelli a castello, mi sembra la più comprensiva, le altre quattro sono selvatiche, una ha pure il bambino con sé, dieci mesi, ha altro cui pensare.
<Per favore, ho bisogno di luce, mi aiuti>?
<Dormi, vedrai che ti abitui>.
<No che non mi abituo. Non sto facendo la lagna, te lo giuro, ho un problema>.
<Chiama il medico>.
<Ma l’ho già detto alle guardie, l’ho detto subito, non mi hanno neanche ascoltato. Che faccio, mi metto a gridare>?
<Non ti azzardare, così ci passiamo tutte. Devi tranquillizzarti, in pochi giorni ti abitui. Io mi sono abituata, loro si sono abituate. Ci si abitua a tutto, pure a questa cella, all’umidità, al freddo, ai rumori, al cesso senza porta, alle compagne antipatiche, alle guardie sgraziate, ai giudici senza cuore, agli avvocati che se ne fregano di te e della tua storia, vogliono solo i soldi del gratuito patrocinio>.
<Te lo giuro, non mi posso abituare, non ce la faccio>.
<Dormi>.

Ma come faccio a dormire? Lo so che devo concentrarmi. Penso a Laura e Carlo, sangue del mio sangue, poverini, a quest’ora ormai sapranno. Penso a quello stronzo di Mauro che mi ha lasciato in queste condizioni. Penso a mia madre che me lo diceva: non dipendere mai da un uomo, figlia mia, non fare come me, guarda come sono finita.
Ma lei è finita bene! Mio padre la adorava anche se ogni tanto qualche ceffone glielo mollava, in pieno volto, anche davanti a noi, specie quando aveva bevuto ma anche no, però le voleva bene, a modo suo, e poi se n’è andato, volato in cielo, e le ha lasciato la pensione: che puoi pretendere di più? Io, se penso, forse mi addormento, ma non voglio dormire, devo stare sveglia perché, se poi mi addormento e mi sveglio nel sonno? Sì, proprio così, mi sveglio ma dormo. Mai sentito parlare di sonnambulismo? Non me lo hanno detto i medici, figurati se mi hanno mai portato, certe cose non si dicono a nessuno, fuori di casa. Ma lo so io, è facile. Da quando ero piccola funzionava così: mia madre la mattina aspettava che fossimo tutti (mio fratello più grande, mia sorella più piccola, mio padre no, era ancora in bagno a farsi la barba) seduti a tavola per la colazione, caffelatte e pane del giorno prima, e cominciava: <Cosa avevi stanotte>?
<Niente, perché>?
Rispondevo sempre ma volevo sapere e, tutto sommato, ero pure divertita e mia madre sorrideva e i miei fratelli ridevano.
<Parlavi di farfalle…>
<Boh non è vero>.
<Sì che è vero, ti ho sentito io> , mio fratello era implacabile. <Dicevi frasi senza senso>.
<E avevi gli occhi sbarrati>, incalzava mia sorella che dormiva in camera con me e che evidentemente si era svegliata.
<Non è vero, smettetela>, e ridevo, mi faceva ridere, ero al centro dell’attenzione per qualcosa che facevo solo io: nessuno parlava nel sonno, nessuno camminava nel sonno.
Stava succedendo un po’ troppo spesso, lo so, così quando mi capitava di alzarmi per andare a fare la pipì subito mia madre, allerta, si precipitava nell’andito, sia mai che aprissi la porta e andassi fuori, così, in pigiama, addormentata. Era già successo.
<Mamma, dai, sono sveglia, sto andando in bagno>, e lei poteva tornare a dormire.
Ho letto che da bambini capita, tutti sono un po’ sonnambuli ma poi passa, come la pipì a letto. Solo che a me non è passata, non la pipì a letto, il sonnambulismo. E ormai so anche quando mi succede, l’indomani, al risveglio. No, non ricordo nulla, ma sono stanca, spossata, di quella stanchezza e spossatezza che mi sorprendeva mentre mia madre e i miei fratelli mi prendevano in giro a colazione. Quindi, lo so: ieri notte ho sonnambuleggiato.
Per questo l’ho detto subito a mio marito la prima volta che abbiamo dormito insieme, non eravamo ancora sposati, no: <Se parlo nel sonno o mi alzo non svegliarmi, parlami piano e riportami a letto>.
E lui no, si spaventava.
<Hai una voce squillante, urli, mi fai spaventare, svegliati, che ti succede>?
E mi svegliava e io non vedevo niente e nessuno, nemmeno lui, e tutto intorno era buio solido, nero. Dove sono? Aiuto! Il cuore in gola, la luce!, dov’è la luce?, devo trovare la luce!

E poi mi svegliavo e quello era ancora lì, con quello sguardo che era un’accusa: lo avevo svegliato, non me lo diceva ma io lo sapevo, e mi sentivo in colpa, e mi venivano le lacrime agli occhi anche se il cuore non era ancora tornato al suo posto e rimaneva lì, a battere in gola, per minuti e minuti e minuti. E allora non mi addormentavo più, per paura che succedesse di nuovo, e disturbassi di nuovo, e il mio spavento dovuto al risveglio improvviso divenisse mortale.
E meno male che il mio fidanzato prossimo marito non ha dovuto bloccarmi come faceva mia madre quando mi trovava in camicia da notte sull’uscio di casa o quella volta che eravamo in nave, Civitavecchia-Cagliari, piena di militari che tornavano a casa. Per non parlare di quando, era la vigilia di Natale, stavo scappando chissà da cosa e da chi e in preda a quale panico, nel sonno, è ovvio, e con un pugno avevo sfondato il vetro della finestra che dava sul terrazzino e il rumore dei cocci aveva svegliato i miei genitori e io mi ero svegliata per il trambusto e avevo pianto, da sola, dopo, nel letto. Perché mi sentivo in colpa, sempre in colpa.
E se mi succede qui, ora, in questa cella? No, non può succedermi qui. Come minimo mi danno un colpo in testa per farmi smettere, e hanno ragione. Non posso stare qui dentro, non posso dormire. Voglio la luce, vi prego datemi una luce. E se muoio? Nooo, ricordatevelo, non mettetemi nella bara, non tumulatemi nel loculo, bruciatemi, nel fuoco, come le streghe, subito , vi prego. Non posso stare in un luogo chiuso, senza via di fuga, al buio, vi pregooo…. Vi prego.

Mi sono addormentata, alla fine ce l’ho fatta, altrimenti ora non sarei qui, all’alba, mi sveglio sempre presto, io, a stropicciarmi gli occhi e a chiedermi dove sono e che ci faccio in questa stanza con quattro sconosciute e un neonato.
<Com’è andata? Hai dormito, alla fine>.

La mia compagna di cella, quella che dorme sotto di me, mica potevo stare io sotto, è ovvio, ma a quanto pare non è il letto di sopra quello più ambito, e meno male. La mia compagna, dicevo, è proprio una brava ragazza, lei mi ha creduto, sono sicura.
Ho parlato stanotte? Ho detto qualcosa>?
<Quando>?
<Stanotte>.
<Io non ho sentito niente>.
<Meno male>.
<Dai, preparati che tra un po’ vengono a prenderti per la direttissima. Cos’hai fatto>?
<Mi è venuta voglia di nutella>.
<Sei qui per la nutella>?
<Sì, per la nutella>.
<E basta>?
<E basta>.
<Ed è la prima volta>?
<La prima volta>.
<La prossima allora prendi un orologio d’oro>.
<Ma io non volevo rubare, volevo solo ricordarmi di quando ero ragazzina e la mangiavo col dito di nascosto da mia madre. Non sono una ladra>.
<Per loro sì>.
<Lo so, devi vedere come mi guardavano quelli alla cassa del supermercato ieri>.
<Cattivi>.
<Non è giusto ma, ti assicuro, il prossimo mese risparmio e me lo compro, il vasetto più grande che c’è, anche se non è in offerta, e me lo mangio tutto, da sola, fino a farmi venire il mal di pancia. Anzi no, un po’ lo conservo per te. Ne vuoi>?

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