Nella Sardegna del XXI secolo si può ancora uccidere per futili motivi? [di Antonietta Mazzette]
Nella Sardegna del XXI secolo si può ancora uccidere probabilmente per futili motivi? A Orune sì. Cambiano i luoghi – non un ovile ma una fermata dell’autobus -, ma non cambiano le dinamiche e neppure i profili sociali degli autori del delitto: criminali (e balordi) dal volto coperto e armati di fucile. E così Gianluca Monni, un ragazzo di appena diciannove anni con in tasca mille sogni che non potrà più realizzare, viene ammazzato, chissà, magari perché si era opposto per l’appunto a qualche atto di prepotenza. Come abbiamo avuto modo di rilevare come Osservatorio sulla criminalità, il ricorso all’omicidio in Sardegna continua ad essere elevato; nonostante l’Isola sia stata attraversata da un insieme di mutamenti sociali ed economici, così come è accaduto nel resto d’Italia e in Europa, che hanno influito sulla diminuzione della violenza come risposta alle controversie e ai conflitti. Ma l’omicidio si inserisce troppo spesso in un contesto culturale di violenza che persiste, e questo contesto è da considerare, oltre che “fatto criminale”, “fatto sociologico”. Fatto che si accompagna ad un altro fenomeno sociale: la diffusione delle armi da fuoco che, non mi stancherò di ripetere, in alcune parti della Sardegna è ancora troppo poco considerata un disvalore. Ogni omicidio è una storia a sé, ma nell’area che noi abbiamo definito “a rischio” e che comprende il comune di Orune, gli omicidi non prescindono dai luoghi in cui avvengono e dalla loro storia, per cui l’annientamento fisico di una persona rientra tra quei modi primordiali (ma residuali) di soluzione dei conflitti, in assenza di altri meccanismi di conciliazione e di mediazione. La persistenza del ricorso alla violenza estrema qual è un omicidio, qualunque sia il motivo addotto, rinvierebbe perciò ad una continuità rispetto al passato (la cosiddetta vendetta barbaricina), ma la maggior parte degli omicidi avviene o per ragioni futili oppure per interesse economico. In tutti i casi, ciò riguarda una minoranza di persone che non è in grado o non ritiene di poter ricorrere a strumenti di conciliazione che si basano sulla ragione e sul dialogo. Questa violenza va sconfitta, anche perché costituisce il presupposto di molti altri crimini che sono stati “aggiornati” negli strumenti e nelle finalità. Che cosa fare dunque? Anzitutto si dovrebbe sostenere la famiglia della vittima, ma anche la comunità che comunque ha subito l’omicidio. In secondo luogo, la comunità si dovrebbe fare parte attiva per individuare i colpevoli. Ovvero nessuno spazio all’omertà. Solo così si possono creare quegli anticorpi alla violenza. Gli strumenti della conoscenza e della trasparenza possono isolare e neutralizzare la violenza di cui qualcuno pensa di essere il portatore. Le indagini sono in corso e non è mio compito fare ipotesi, ma anche Orune è un comune di piccole dimensioni, dove si possono facilmente individuare singoli e gruppi (per lo più giovani maschi), la cui unica (in)attività sembra essere quella di sostare davanti a qualche locale, magari infastidendo qualche passante con atti e parole (che se rivolte a una donna possono essere triviali). Al di là del paese ora coinvolto, in questi piccoli insediamenti vi sono intere generazioni di giovani che vivono ai margini della società per motivazioni individuali e non per ragioni economiche; essi quasi sempre vivono in famiglia, non lavorano e non studiano. Di queste generazioni dobbiamo farci carico e, perciò, è necessario elaborare un piano straordinario di politiche volte a costruire progetti di lungo periodo e vite sociali che abbiano un senso e un’utilità collettiva oltre che individuale. Per far ciò, non si possono lasciare “sole” le amministrazioni comunali e non le si può privare dei presidi dello Stato: dalla scuola alla caserma. La Sardegna ha bisogno che nessun giovane sprechi la sua e altrui vita e quindi oggi più di ieri serve che una molteplicità di attori (pubblici e privati) entri in gioco, insieme a ricerche mirate che consentano di comprendere le subculture materiali di cui sono impregnati questi giovani; servono inoltre sportelli di orientamento e sostegno con figure professionali, quali quelli di coaching, distribuiti nel territorio. |