Ebola un anno dopo [di Marco Lazzarotti]
corritalia.de. In questo nostro tempo dove tutto gira in fretta e vorticosamente, forse è passata inosservata la notizia che ormai è trascorso un anno da quando il virus Ebola ha cominciato a colpire alcuni paesi nell’Africa dell’ovest, nello specifico Guinea, Sierra Leone e Liberia. Un anno è un tempo lungo che ha visto più di 10.000 persone morire a causa di questo virus e quasi 25.000 contrarlo. I casi di morte e di contagio si stanno riducendo drasticamente, ma per quel che riguarda i nuovi contagi non siamo ancora vicini a quota zero. Se il virus sembra rallentare, appare drammatica la situazione economica e sociale che si lascia dietro. I sistemi sanitari dei tre paesi, che già prima della comparsa di Ebola avevano grosse lacune e non riuscivano in alcun modo a garantire una assistenza sanitaria di base, devono adesso essere ricostruiti. La cosa assume oltretutto un tono sarcastico di fronte alla ricerca fatta dall’associazione non governativa Save the Children (2015 Report), in cui si evince che sono stati spesi 4.3 miliardi di dollari per contrastare il virus, mentre ne sarebbero bastati 1.58 per costruire dei sistemi sanitari dignitosi ed efficaci in questi tre paesi. A tutto questo possiamo sommare il fatto che un’altra organizzazione non governativa, i Medici Senza Frontiere, che avevano già il 31 Marzo 2014 avvisato la comunità internazionale riguardo al serio pericolo di una epidemia di Ebola senza precedenti, erano stati considerati da questa come esagerati allarmisti. Ebola è un virus che si trasmette tramite il contatto umano, tramite liquidi corporei (sudore, saliva, sangue, latte materno, ecc.), e in posti dove le temperature sono costantemente alte e le persone conseguentemente sudate, si può ben capire la rapida diffusione e l’alta mortalità che ha colpito questi paesi dell’Africa occidentale. A questo va purtroppo aggiunto il fatto che, come abbiamo accennato in precedenza, i sistemi sanitari di questi paesi non erano – e non sono – assolutamente capaci di far fronte a questa improvvisa epidemia. Questo ha principalmente due conseguenze: la prima è che le persone più a rischio sono proprio quelle che lavorano per assicurare assistenza medica ai malati. Dottori e infermieri hanno purtroppo pagato un prezzo molto alto nei tre paesi principalmente colpiti dal virus. 500 fra medici e infermieri locali sono morti cercando di lavorare per salvare altre vite umane. La seconda conseguenza è di tipo sociale. È stato fermamente vietato lo stringersi la mano per salutarsi, le scuole sono state chiuse, le cerimonie pubbliche (dai funerali alla Messa di Natale) vietate. L’impatto a lungo termine di questi seppur minimi cambiamenti alle tradizioni e alle relazioni umane non è ancora noto. Gli psicologi sono preoccupati che in queste popolazioni il sospetto che altre persone possono aver contratto il virus mortale avrà bisogno di molto tempo per allentarsi. Sempre secondo lo studio dei Medici senza Frontiere, “il trauma di Ebola ha lasciato la gente diffidente delle strutture sanitarie, ha lasciato gli operatori sanitari demoralizzati e timorosi di riprendere servizio, e ha lasciato le comunità in lutto, impoverite e sospettose”. La situazione attuale si presenta complessa: in Guinea, il numero di pazienti è di nuovo in aumento, così come in Sierra Leone. In Liberia è attualmente il conto alla rovescia (42 giorni, il doppio del tempo di incubazione del virus) dopo aver accertato gli zero casi, ma rimane a rischio finché il virus vive nei paesi limitrofi. A questa situazione fa da contraltare l’atteggiamento della comunità internazionale. Dopo che sembra scongiurata la possibilità che il virus raggiunga l’Europa e il mondo sviluppato, le missioni internazionali hanno cominciato a ritirarsi. Sul campo rimangono solamente le organizzazioni non governative e le congregazioni missionarie. Tra queste, anche se non direttamente sul posto, vi è anche la comunità italiana di Ludwigshafen, che sin dall’inizio di questa crisi ha sostenuto in maniera generosa questo popolo martoriato, rispondendo in modo generoso all’appello di Padre Natalio Paganelli, amministratore apostolico della diocesi di Makemi in Sierra Leone. Ultimamente Padre Natalio ci ha aggiornato che in questo momento l’istituzione che più sta soffrendo è l’ospedale diocesano Holy Spirit Hospital: “Io ho già dovuto sostenerlo finanziariamente molto durante tutto il periodo dell’Ebola, adesso si sta riprendendo ma con molta fatica e lentamente, temo che sia una struttura a rischio”. Allora, la comunità cattolica italiana di Ludwigshafen, ha deciso di sostenere un progetto a favore proprio del Holy Spirit Hospital, inviando subito 15.000 € che saranno cosi spesi: 5.000 euro per sostenere i salari degli infermieri/e, 5.000 euro per adattare le strutture ospedaliere alle esigenze del post ebola, e 5.000 per pagare l’assistenza a chi non la potrebbe pagare che, come ci sottolinea ancora padre Natalio, sono ancora troppi. |