Quattrocento metri sotto il cielo [di Giampaolo Cassitta]
Zio Vittorio a vederlo oggi è un gigante appiattito con occhi piccoli e immensi. Che guardavano lontano. Oltre il suo paese. Oltre quelle curve che sembravano un budello e che lo riportavano sempre da quelle parti. Oltre una vita che sembrava adatta per la campagna e per fare il servo pastore. Perché questa era la storia. Nel dopoguerra in quelle campagne aride e con pochi colori, niente c’era. Solo la malasorte. Zio Vittorio dicevano tutti che era il più forte del paese. Lo chiamava il prete per suonare le campane e lo faceva da solo, con mani possenti che stritolavano le corde. Lo chiamava il padrone dei buoi a mettere il giogo e ad arare nei campi e lui solo con lo sguardo e una strizzata alle corna quei buoi li faceva anche cantare. Zio Vittorio era uno che raccontava storie. Forse fantastiche, forse completamente false ma quando arrivava, dal Belgio, con il caffè, il cioccolato e molte caramelle era lo zio da aspettare. Perché portava le storie e ci faceva vedere le braccia. E dentro le braccia c’erano i carboni. Braccia bianchissime rigate da pezzi di carbone. E allora zio Vittorio raccontava di quando aveva lasciato il paese ed erra arrivato in vaporetto (diceva sempre vaporetto Zio Vittorio) e poi il treno per la Francia e il Belgio dove c’erano le miniere e i turchi. Ed era diventano amico di un turco lamentoso che aveva paura di scendere giù nel pozzo nero e urlava sempre che aveva il fegato e aveva il rene e zio Vittorio rideva e urlava e diceva che il fegato ci voleva per scendere nel ventre della terra e bisognava farlo. Allora, io, con molta curiosità chiedevo cosa ci fosse sotto quella terra e come poteva il carbone entrare nella pelle. E zio Vittorio raccontava e parlava e dava pacche forti sulle spalle. E spiegava. Capivo che quando spiegava era una cosa seria perché abbassava la voce. Ci portava con le parole davanti a quella miniera, alla bocca nera nera, come la chiamava lui e c’era un ascensore che era un rumore di ferro marcio e duro e si scendeva bianchi fuori ma neri dentro. In silenzio. Solo il turco che si lamentava. E non c’erano francesi e non c’erano belgi e non c’erano quelli della zona. Italiani, turchi, qualche tunisino e gente dell’est che zio Vittorio non amava e per quel motivo non li metteva nei suoi racconti. E scendeva, scendeva, sino a 1000 metri sotto. Qualcuno si fermava prima, il turco lamentoso non andava mai oltre i 500. Perché ci voleva fegato e cuore e forza e follia per scendere a 1000 metri perché il problema era risalire. Lui diceva sempre che era come morire, prendersi una pausa dalla vita e la cosa più bella era uscire. Si sentiva Lazzaro quando vedeva il buco della porta della miniera. Usciva ogni giorno con un pezzo di carbone in più nei suoi polmoni e il cuore sempre più pesante e gonfio. Zio Vittorio si stabilì a Quievrain, in Belgio, un paesino vicino a Mons, dove c’erano le miniere e incontrò Janine, una di quelle francesi fino al midollo, erre moscia compresa. E fece figli biondi che riportò in paese e parlava un italiano che non si capiva, un sardo che era colorito e un francese improbabile. Un gigante con gli occhi piccoli. Da grande, gli chiesi perché aveva lasciato le pecore per la miniera, dopo avermi dato una pacca sulla spalla mi diceva: “Eh, Giampaolo, tu studia che è meglio. La miniera fa veramente schifo e mette paura e le pecore mettono tristezza. Sono andato via perché sapevo che trovavo Janine che qui così bella non c’era. Sono andato via perché bisognava, da qualche parte cominciare. Ma non provare mai, dico mai, a buttarti dentro la terra e spalare carbone. Le vedi queste braccia? Questi segni? Quando li guardo mi ricordo a quanta vita ho gettato sotto terra senza nessun cielo da osservare.” Zio Vittorio, piccolo gigante buono, pieno di carbone. Occhi piccoli e veloci e polmoni che annaspano nella periferia della vita. Quando qualcuno vi dice che i minatori difendono il posto di lavoro ditegli che non è vero. Difendono solo la dignità ma nessuno ama scendere 400 metri sotto il cielo. Quando vedete un minatore ricordatevi che non solo è un uomo ma è anche un simbolo. Di forza, di coraggio, vuole dimostrare al mondo che esiste ancora la forza di amare e di lottare. Quando vedete un minatore pensate a Zio Vittorio, che oggi vive ancora a Quievrain, nella sua villetta vicino alla stazione e sorride quando si guarda le braccia. Braccia che hanno regalato vita ma che hanno appesantito il cuore. Quando vedete un minatore stringete gli occhi e allargate il cuore. E’ gente che merita rispetto. |
grande pezzo. bellissimo e complimenti
La storia di zio Vittorio ricorda tanto la storia di mio bisnonno Luigi Mucedda che nonna Maria Caterina non perdeva
ricorrenza per ricordare; è la storia di molti di noi, un pezzo di storia dell’umanità, è tanta storia della Sardegna in Sardegna e fuori dalla Sardegna. Zio Vittorio racconta: “quando qualcuno vi dice che i minatori difendono il posto di lavoro ditegli che non è vero. Difendono solo la dignità”
La dignità dei singoli e dell’intero genere umano credo non debba mai essere lambita da mutilazioni, credo si tratti del valore più alto, assoluto e inalienabile. Oggi non sono sicuro che imprigionarsi nei pozzi carboniferi per settimane significhi difendere la dignità di coloro “che hanno regalato vita e appesantito .. il cuore”. Oggi dobbiamo con forza, assieme a questi lavoratori, conquistare alla politica, al sindacato, alla cultura, alla religione che per quest’Isola è possibile un “altro lavoro”, lavoro che restituisca la luce del cielo e separi dall’oscurità, perché lì, sotto le viscere del suolo, cresce solo la morte dell’anima, prima ancora del trapasso. Solo un “altro” lavoro renderà giustizia, solo quando saranno riemersi per mille metri sopra l’inferno, allora tutti i Vittorio e i Luigi di questa terra vedranno riparata la dignità e ghermito un altro pezzo di libertà.