Riappropriarsi del proprio destino [Silvano Tagliagambe]
La campagna elettorale per le prossime elezioni regionali si sta sempre più concentrando sul rapporto Stato-Regione e sui diversi sbocchi ai quali può approdare il confronto su questo specifico tema: autonomismo più spinto, sovranismo, indipendentismo. Non sono per nulla affezionato o interessato al dibattito astratto sugli “ismi” di turno, e tuttavia, in questo caso, c’è un problema concreto da affrontare e che non può essere eluso: il fatto che non c’è, e non può esserci, programma politico e culturale che si possa realizzare se non ci si mette nelle condizioni di farlo, rivendicando ed esercitando fino in fondo, con responsabilità e competenza, tutti i poteri necessari per la sua attuazione. La Sardegna non può nemmeno cominciare ad affrontare e risolvere i problemi che l’affliggono se rimane ostaggio e prigioniera dei giochi di alleanze che s’intrecciano nella Conferenza Stato-Regioni, organo al quale sono ormai delegate le decisioni riguardanti la sfera delle materie concorrenti. Il modello della concorrenza-separazione, delineato dal legislatore in occasione della riforma della seconda parte della Costituzione, oltre a essere di difficile e complessa applicazione, sempre fonte di conflitti istituzionali, tocca questioni di vitale importanza, definite dal terzo comma dell’art. 117: tutela e sicurezza del lavoro, istruzione “salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”, ricerca scientifica e tecnologica, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, valorizzazione dei beni culturali e ambientali, ordinamento della comunicazione, solo per fare alcune (non casuali) esemplificazioni. Non sono un costituzionalista, e non ho alcuna competenza in merito, però credo che sia questione di semplice buon senso chiedersi a questo riguardo se la Sardegna sia stata concretamente capace di farsi interprete dei propri interessi vitali, vista l’incidenza e l’importanza delle materie delegate alle decisioni di quella Conferenza, e di rivendicarli con decisione. Poteva e doveva farlo appellandosi al proprio Statuto ma anche utilizzando fino in fondo a proprio vantaggio la problematica applicabilità di un modello di concorrenza-separazione nel quale lo Stato definisce i principi fondamentali sulla allocazione, le Regioni allocano le funzioni (anche sopra di sé) sulla base di tali principi e di quelli costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. L’altra domanda fondamentale che diventa ineludibile è se la Conferenza Stato-Regioni abbia concretamente rappresentato, in questi anni, il luogo di composizione e convivenza delle istanze dell’unità e dell’autonomia. La mancata previsione costituzionale di sedi di concertazione, funzionali a contemperare, appunto, il valore dell’unità con quello dell’autonomia, rende difficile prefigurare la possibilità che l’intesa possa essere raggiunta in assenza di un consenso unanime delle Regioni interessate, ad esempio sugli standard comuni necessari per qualsiasi servizio a rete. Le decisioni di questi ultimi anni in materia di dimensionamento scolastico, di politica dell’istruzione universitaria e della ricerca, di politica energetica, per fare solo alcuni esempi – anche in questo caso tutt’altro che casuali – sono eloquenti. Esse costituiscono una prova difficilmente confutabile del fatto che la Sardegna non è stata in grado di far pesare nell’ambito della Conferenza, come hanno fatto altri territori (valga per tutti il caso delle province di Trento e di Bolzano) la propria specificità e autonomia, traducendole in principi e interessi irrinunciabili da salvaguardare a ogni costo. Non è stata neppure in grado, per quanto riguarda ad esempio l’istruzione, di sottrarsi al giogo e alla tenaglia rappresentate dall’evidente alleanza che nel relativo tavolo, coordinato dalla regione Toscana, si è saldata per interessi comuni tra le regioni del Centro (in prevalenza rette da giunte di centrosinistra) e le regioni del Nord (guidate per lo più da giunte di centro-destra) a danno delle regioni del Sud per quanto riguarda questioni vitali, come i criteri da seguire nella ripartizione delle risorse (finanziarie e umane) tra i diversi contesti territoriali. Basta leggere i verbali della Conferenza Stato-Regioni per rendersene conto. Oggi i nodi provocati da questa incapacità (o, peggio, disinteresse) stanno venendo tutti al pettine. Il decreto appena firmato dal ministro Carrozza e ora all’esame della Corte dei conti, che definisce “le linee generali d’indirizzo e gli obiettivi della programmazione del sistema universitario per il triennio 2013-2015” è un serissimo campanello d’allarme per il futuro degli Atenei sardi, visti gli obiettivi che vengono indicati e gli strumenti adottati per la verifica degli standard d’adeguatezza delle singole sedi. All’orizzonte, con la giustificazione del criterio del “dimensionamento sostenibile” e della finalità di “potenziare la dimensione internazionale della ricerca e della formazione”, si profila la fusione tra le università e l’”accorpamento o eliminazione di corsi di laurea e di laurea magistrale, su base regionale, macro regionale o nazionale, in funzione della domanda, della sostenibilità e degli sbocchi occupazionali”. Lo scenario che così si delinea è compatibile con un progetto politico regionale che punti, com’è indispensabile fare, sul potenziamento della ricerca e dell’innovazione e sull’innalzamento qualitativo – ma anche sulla necessaria estensione quantitativa, vista la situazione di partenza tutt’altro che soddisfacente e sufficiente – del bacino di conoscenze e competenze dal quale sia possibile attingere per poter centrare quell’obiettivo? In altri casi a risultare penalizzanti non sono le scelte e alleanze altrui, ma le conseguenze delle decisioni sciagurate prese dal governo regionale. Voglio citare a questo proposito un solo esempio. Ieri è stato definitivamente approvato il decreto sempre del ministro Carrozza sull’istruzione. Grazie alle integrazioni e modifiche al testo originario frutto soprattutto dell’intelligente lavoro della VII Commissione (cultura, scienza e istruzione) della Camera nel testo finale figurano, in particolare, i seguenti due commi dell’art. 6: “2-bis. Al medesimo fine di potenziare la disponibilità e la fruibilità, a costi contenuti, di testi, documenti e strumenti didattici da parte delle scuole, degli alunni e delle loro famiglie, nel termine di un triennio, a decorrere dall’anno scolastico 2014-2015, anche per consentire ai protagonisti del processo educativo di interagire efficacemente con le moderne tecnologie digitali e multimediali in ambienti preferibilmente con software open source e di sperimentare nuovi contenuti e modalità di studio con processo di costruzione dei saperi, gli istituti scolastici possono elaborare il materiale didattico digitale per specifiche discipline da utilizzare come libri di testo e strumenti didattici per la disciplina di riferimento; l’elaborazione di ogni prodotto è affidata ad un docente supervisore che garantisce, anche avvalendosi di altri docenti, la qualità dell’opera sotto il profilo scientifico e didattico, in collaborazione con gli studenti delle proprie classi in orario curriculare nel corso dell’anno scolastico. L’opera didattica è registrata con licenza che consenta la condivisione e la distribuzione gratuite e successivamente inviata, entro la fine dell’anno scolastico, al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e resa disponibile a tutte le scuole statali, anche adoperando piattaforme digitali già preesistenti prodotte da reti nazionali di istituti scolastici e nell’ambito di progetti pilota del Piano Nazionale Scuola Digitale del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca per l’azione ‘Editoria Digitale Scolastica’. 2-quater. Lo Stato promuove lo sviluppo della cultura digitale, definisce politiche di incentivo alla domanda di servizi digitali e favorisce l’alfabetizzazione informatica anche tramite una nuova generazione di testi scolastici preferibilmente su piattaforme aperte che prevedano la possibilità di azioni collaborative tra docenti, studenti ed editori, nonché la ricerca e l’innovazione tecnologiche, quali fattori essenziali di progresso e opportunità di arricchimento economico, culturale e civile come previsto dall’articolo 8 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82″». Chi abbia seguito anche distrattamente le vicende del progetto “Scuola digitale Sardegna” riconoscerà facilmente qui alcuni degli obiettivi generali che lo caratterizzavano (in largo anticipo sui tempi governativi e legislativi) e in particolare: la liberalizzazione del mercato dei contenuti didattici, il superamento della logica e della prassi del “libro di testo in adozione”, l’auto-produzione di materiali, il concetto di licenze aperte Creative Commons, la circolazione dei materiali prodotti su piattaforme aperte e condivise. Questi obiettivi erano chiaramente enunciati e contenuti nel bando di gara pubblicato il 27 aprile del 2012, e nella precedente delibera, tanto innovativa da potere essere considerata rivoluzionaria, del 24 giugno del 2011, la n. 28/69, che ne era premessa e costituiva parte integrante degli interventi da attuare. Il bando è stato revocato sulla base di una deliberazione del 31 luglio 2012 della Giunta regionale e a esso, nonostante tutti le promesse e i propositi sbandierati dal presidente della Regione e dall’assessore della Pubblica Istruzione, non è stato dato alcun seguito; la delibera, nonostante sia stata approvata dalla Giunta, è rimasta per quanto riguarda quegli interventi, e in particolare il finanziamento, con 8 milioni di €, dell’autoproduzione dei materiali didattici da parte dei docenti del sistema scolastico regionale, lettera morta. Quegli obiettivi, frutto di un lavoro di ricerca e di progettazione che aveva consentito alla Sardegna di essere in anticipo sui tempi, come dimostra il fatto che oggi sono al centro delle politiche scolastiche nazionali, sono, di conseguenza, andati perduti. Anche per quanto riguarda tutti gli aspetti che ho qui cercato di evidenziare, vitali per garantire la credibilità e la realizzabilità di qualsiasi programma politico e culturale, occorre pertanto un’inversione di rotta decisa e radicale rispetto a ciò che si è fatto negli ultimi anni e si sta tuttora facendo, con prese di posizione e decisioni costantemente caratterizzate dalla netta prevalenza di una propaganda spinta oltre ogni ragionevole limite sulla concretezza di obiettivi selezionati e perseguiti sulla base di un progetto rigoroso e fattibile. Il confronto, dal quale siamo partiti, sui tre “ismi” enunciati (autonomismo con maggiori poteri, sovranismo, indipendentismo) non può che essere sviluppato e condotto con una discussione serena e costruttiva che punti a individuare il percorso alternativo da intraprendere per “centrare” le finalità politiche e culturali indicate.
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