Il mio San Costantino: interviste ai sedilesi e ai pellegrini [di Umberto Cocco]
Prefazione del libro collettivo Il mio San Costantino con 16 interviste a sedilesi e pellegrini, fatte dal sindaco e giornalista Umberto Cocco dal 2010 al 2014, presentato domenica 17 maggio a Sedilo a Sa prima ighina in occasione dell’insediamento del Comitato scientifico per avviare la richiesta per l’inserimento del Novenario di San Costantino nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’ Unesco (Unesco World Heritage) (NdR). Le interviste sono state raccolte da me nell’estate del 2102 e del 2013, una parte in sardo (quella a Pietro Atzas, Pietruccia Meloni, Giampietro Carta, Antonio Carta, Tonino Manca, Angelino Onida, Pasquale Onida, Alessandro Carta, Costantino Marongiu ed Elena Camboni) che sono riportate in orginale oltre che nella traduzione in italiano. Videoregistrate, sono state proiettate in pubblico durante le serate di In hoc signo vinces, in piazza a Sedilo a fine agosto di quegli stessi anni, nei giorni della novena di San Costantino e delle veglie tradizionali nel novenario (su ’izadòrzu), ormai perdute. Ero sindaco del paese dal 2010, ancora redattore di un giornale. Avevamo invitato a Sedilo alla vigilia della festa di San Costantino di quello stesso anno i fondatori di Memoro – la Banca della Memoria. Torinesi, avevano creato un sito per raccogliere la memoria degli italiani, registrazioni audio e video raccolte dai familiari anche con i telefonini, per costruire un grande archivio digitale. Su nostra indicazione, intervistano dodici donne del paese, ultraottantenni, attorno al tema della festa – in quei giorni imminente – di San Costantino. Erano i giorni di una polemica feroce contro le norme a tutela dei cavalli introdotte dal governo Berlusconi con un decreto (Martini) che prese il nome della sottosegretaria della Lega Nord che l’aveva sostenuto e lo stava facendo applicare con furore ideologico. Ma le donne, nelle interviste, era come se parlassero d’altro. Erano testimonianze che rivelavano una ricchezza e varietà di approcci alla festa, uno sguardo femminile intanto, che sottraeva retorica alle esaltazioni della balentìa, al machismo dell’Ardia con cui alcuni ambienti reagivano a quelle norme e contro gli animalisti che l’avevano ispirata. I giornali, le tv locali, la politica locale, arroventavano la polemica sull’Ardia. Loro, le donne, calme, a rievocare, serenamente, con sguardo storico. Anche nelle interviste di Il mio San Costantino l’Ardia è centrale certo. “L’Ardia c’è tutto l’anno” dicono due giovani amici in un’intervista. Ma cambia lo sguardo che su di essa mettono le giovani generazioni e quelle dei più grandi, fra chi la corre e l’ha corsa e chi no, fra uomini e donne e, fra queste, fra chi ha un familiare che va all’Ardia a correre e chi non è altrettanto coinvolto; o meglio, è coinvolto ma in un’altra dimensione, a volte persino indifferente all’Ardia, o vagamente tollerante di un gioco maschile rischioso che quanto prima finisce… meglio sarebbe…Non sono interviste strutturate, ho scelto io chi intervistare fra sedilesi (e un sassarese) di generazioni diverse, uomini e donne, sollecitando ricordi e in qualche modo uno sguardo autonomo anche sull’oggi, un rapporto personale con la festa e con il paese. Vengono fuori quadri diversi, raramente stereotipi, mai interpretazioni banali, coinvolgimento sempre ma per esempio a volte anche distanze dall’Ardia (Pedrutzedda Meloni che non la vede da oltre mezzo secolo, Costantino Porcu che preferisce ricordarla e anche “sentirla” da una terrazza del paese ma non la vede più quasi per scelta), che invece con il passare degli anni è monotematicamente proposta nella sua dimensione spettacolare, consumata in poche decine di minuti e staccata dal complesso rituale della festa, staccata dalla vita reale del paese, i cavalieri fatti eroi a prescindere, altre figure sistemate – anche loro malgrado – nell’altarino della rappresentazione. La spettacolarizzazione dell’Ardia viene da lontano, è figlia di un’interpretazione esterna anche quando sembra romantica ed è magari colta. Risultato di letture molteplici, e di un conflitto fra interpretazioni che si gioca da qualche decennio almeno. Vi ha un ruolo la chiesa, che ha provato a sostituire San Costantino con Sant’Elena negli anni ’30 del secolo scorso, prima di rassegnarsi al culto popolare e sovrapporgli figure retoriche (l’Ardia come riproduzione della battaglia di Ponte Milvio) che ne espungano qualsiasi radice, e memoria, pagane. Anche il carico simbolico di festa identitaria più di altre, di icona della Sardegna tradizionale, arcaica, pastorale, viene da lontano ed è un’interpretazione esterna, inevitabilmente. Stagno era stato una volta alla festa di San Costantino. Da dove viene la suggestione di quella lettura? “Il paesaggio che sembra Messico”, la polvere, “la follia allo stato puro”, l’“inno alla vita e alla morte”, “la folla impazzita”, “la più selvaggia corsa di cavalli che possiate immaginare”, il “trionfo di sangue, sudore e polvere”? Vituperati dai circoli di intellettuali sardi che si riuniscono attorno alla rivista Ichnusa di Antonio Pigliaru, i documentari della Walt Disney sulla Sardegna, e le scene che vi sono contenute dell’Ardia, forniscono materiale abbondante all’epica anche un po’ western della festa di Sedilo. Sono girati nel 1954. A Sedilo la troupe italiana della Disney è ospitata e accompagnata dal medico del paese, Domenico Riccio, fondatore e presidente della Proloco. Attivissimo anche nella politica locale, manda i cavalieri di Sedilo alla Cavalcata Sarda a Sassari consigliando loro di macchiare di sangue animale le camicie candide, mentre si inseguono, galoppano, sulla pista dello stadio. Guardacaso in quello stesso anno, il 1954, il più serio e importante documentarista sardo, Fiorenzo Serra, si avvale del contributo degli intellettuali sassaresi di Ichnusa per realizzare e commentare le immagini del più celebre dei documentari sulla festa di San Costantino. Presentato al pubblico nel 1957, rappresenta la festa di Sedilo press’a poco nello stesso modo. Più di Stagno, Serra fa sua la tesi dell’Ardia come rievocazione della battaglia di Ponte Milvio, ma sembra condividere di più l’idea di una “forza barbarica che la pervade”, e che induce a credere che le sue origini siano nei “riti naturalistici del mondo pagano”. Sono come si vede echi e suggestioni di origini diverse, si mischiano, si confondono, a volte confliggono, teorie interpretative rivali. Ai diversi livelli della divulgazione, della creazione dell’immaginario. L’antropologia si cimenta con la materia in Italia sempre in quegli anni grazie a Ernesto De Martino e alla sua scuola. Le culture subalterne, contadine, del Mezzogiorno, conquistano improvvisa dignità, diritto di esistenza, di rappresentazione. Osservate sul terreno, studiate, mostrano anche povertà, miseria. Ma sono anche resistenze alle culture dominanti, alle interpretazioni ufficiali della chiesa, alla sua volontà di assorbire e riplasmare i rituali arcaici, cancellare la loro origine precristiana. Nel 1959 De Martino è chiamato all’insegnamento all’Università di Cagliari, e a Cagliari resta sino alla morte, nel 1965, lasciando una grande eredità e uno stuolo di studiosi. È in quegli anni e in quel contesto culturale e politico che la festa di Sedilo, il paese medesimo, persino la sua sanguinosa faida degli anni ’50 e ’60, entrano in un circuito più largo, diventano simbolici in Sardegna, simboli della Sardegna interna con tutto il fondo di realtà cruda del mondo pastorale ma anche con la sovrapposizione di miti che si prestano a questa rappresentazione. Oggi sembra eccessivo tutto questo carico, è come se ci fosse bisogno di letture aggiornate delle nostre comunità, della Sardegna intera, delle tradizioni e fra queste della festa di San Costantino. Perché è come se sopravvivessero i miti, e anzi ingigantissero, mentre le forme di vita che li hanno alimentati non esistono più; e noi a coltivare i miti, e non la vita. Resta nella memoria delle persone, come dimostrano le interviste, un sostrato arcaico che riporta indietro nel tempo: le favole sui luoghi, i racconti dei pellegrini, la rievocazione dei raduni, dei percorsi, il ritorno in quasi tutti i racconti degli intervistati degli ospiti logudoresi, del Goceano, di Sassari, Ozieri, Pattada, Oschiri, Macomer… Come se fosse stata troppo sbrigativamente liquidata la tesi di Angius che un Costantino “regolo turritano” veniva celebrato nella festa di Sedilo, “non l’Imperatore romano, come alcuni pensano”. In ogni modo, viene fuori dalle interviste – e da quelle serate di In hoc signo vinces – un paese, e una comunità, e una festa, assai più ricchi di come vengono rappresentati, e di come ci autorappresentiamo. Anche per tornare a leggere noi stessi con ricchezza di approcci, e complessità e articolazione, il Comune sta candidando la festa a Patrimonio dell’Umanità fra i beni immateriali riconosciuti dall’Unesco. La festa, il paesaggio nel quale si svolge, il novenario, i sentieri dei pellegrini e i cavalli al pascolo nell’altopiano e nelle vallate del Tirso. Ci interessa il percorso, quasi più che il risultato, la gestione di questo bene, di questi beni. E non può esserci tutto questo senza la consapevolezza critica di sé. |