Lo stomaco delle formiche [di Giulia Clarkson]

 

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Ho smontato la bicicletta, tanto non l’usavo. Mi ripetono che è troppo pericolosa per le vie della città e mi costringono a salire sugli autobus con i vecchi e gli extracomunitari. Mia madre mi vieta di parlare con loro. Possono avere malattie, precisa, stai lontana. Me ne faccio una ragione, il pericolo è sempre in agguato. Mi aggrappo ai tubi che delimitano la cabina del conducente. Lo vedo spiarci dallo specchietto: anche lui deve avere paura.

Gianna dice che le città sono la degenerazione della nostra debolezza. Non so cosa significhi, però è di sicuro una cosa non bella. Gianna non parla mai di cose belle. Dice che un assembramento così denso nel raggio di poco spazio riesce solo alle formiche, artefici e schiave del loro formicaio. Gianna beve al bar sotto casa; dopo le cinque del pomeriggio canta le canzoni del paese in cui è nata, storie di terra e tradimenti. Alza gli occhi al cielo e immagina che dietro ogni porta si sveli un giardino di fiori e jacaranda in cui il chiacchiericcio delle persone sia finalmente udibile sopra l’eco dei motori e gli sconosciuti si sorridano. Le sue visioni durano poco, subito si acciglia: la betoniera ha preso a scaricare la sua colata di cemento e gli uomini dell’impresa, con le vanghe e gli elmetti gialli, si son messi all’opera.

Viviamo in un palazzone di otto piani, tutto grigio, la veranda è stata chiusa per stiparci la cucina. Era l’unico punto da cui entrava il sole. Adesso quando ho voglia di riscaldarmi le ossa devo salire sul tetto. Somiglia a una delle tante postazioni recintate con il filo spinato da cui pende un cartello giallo a caratteri neri: Zona militare – Divieto d’accesso. Ci salgono solo i tecnici della tv quando devono rimontare le antenne abbattute dal vento. Sono loro i primi ministri ricevuti con tutti gli onori e il presentat-arm della squadriglia.

Ho imparato ad aprire la porta proibita con un pezzo di ferro. Oltrepasso la porta del cielo. Salgo, mi mimetizzo come un camaleonte. Non posso correre, non posso giocare a palla, posso però leggere e sognare, quassù. Diventerò una testa gigante, nella mano rimarrà un unico dito, per girare le pagine. Le gambe si staccheranno da sole, per inutilizzo. Gli occhi invece si allargheranno su tre quarti del volto: non mi stanco mai di guardare intorno. E collocare al posto giusto quanto manca: alberi, alberi, alberi. E visi sorridenti.

Ho sempre desiderato salire su un albero invece che su questo stupido tetto da cui non posso neanche levarmi in piedi per paura di essere vista. Che imparino a costruire tubi a prova di radice, che imparino a calibrare le distanze. Gli alberi sono aria, sospira Gianna e lo ripete persino la maestra. Tutti lo sanno, eppure ne hanno appena abbattuto cinque pochi metri più avanti per fare spazio a qualche posto auto.

Vorrei fare un regalo a mia madre. Lei che ha sempre tanta paura per tutti noi e anche per se stessa. Un giorno ha afferrato un ragazzo per la maglietta e gli ha urlato in faccia: “se ti avvicini ancora a mia figlia ti ammazzo!”. Era uno che avevo visto qualche volta all’uscita di scuola, non mi aveva mai fatto niente di male. Quello l’ha spinta, lei è caduta a terra. Avrei voluto aiutarla ad alzarsi, ma ero piena di vergogna. Non si urla alla gente in quella maniera. Mia madre avrebbe bisogno di assistenza, a volte. Ci ripete che siamo il suo futuro, che lo sa, dovrebbe stare più attenta ad ognuno di noi. Ci chiede scusa guardandoci negli occhi con le lacrime trattenute. “Se solo qualcuno mi aiutasse…” aggiunge.

Gianna dice che custodire i cuccioli dovrebbe essere compito di tutti. Per difenderli non solo dai predatori, ma anche dalla follia delle madri. La città, per porre rimedio a se stessa, dovrebbe pullulare di luoghi in cui scambiare parole sapienti e sciogliere i nodi della disperazione. Se si lavorasse per produrre utilità e felicità, cresceremmo più sani e capaci, dice.

Gianna parla così perché conosce le formiche e sa che loro, quando hanno bisogno di acquistare forze, attingono allo stomaco sociale. Si chiama così. Alcune si fanno crescere una pancia talmente enorme che quasi gli impedisce di camminare, e la mettono a disposizione delle altre. È un serbatoio energetico da cui attingere a volontà. Ecco come riescono a scavare anche nel cemento, e infatti, guarda un po’, si sono fatte un formicaio proprio sotto i miei piedi. Sul tetto del palazzo. Penso che a parte Zeta, le formiche non sono umane. Non godono del sole, non si nutrono di bellezza, non lottano con i rimorsi.

Però costruiscono formicai, all’apparenza perfetti. Ma soggetti a crolli. Quando accade, una miriade articolata di esseri operosi viene sepolta. Chilometri di gallerie spariscono, si mischiano a un’orda disordinata di zampette angolate e frenetiche. Ben presto riemergono gli addomi grossi e rigonfi, le teste aculeate, la frenesia di ripristinare l’ordine sconvolto. Si riprende dove tutto è fallito, di buona lena, scongiurando il fato detestabile, maledicendo il fiuto caduto in errore. Generose e avide al punto giusto, le formiche archiviano nei meandri della memoria genetica ciò che è andato distrutto. Non contano le vittime, ché i morti sono morti e non hanno più bisogno di cure o pensieri, né indugiano allo sconforto. Fanno ciò che sono destinate a fare.

Guardo un’ultima volta Gianna, in basso, piccola piccola. E il pezzo di ferro che ho ancora in mano, con cui apro la porta del cielo. Lo infilo con gusto dentro il formicaio, lo spingo in fondo, lo rigiro per benino. Spio le operaie che impazzano. E godo al pensiero di avere abbattuto una città disumana che pure si è nutrita di uno stomaco condiviso.

*Scrittrice, giornalista, performer, mamma di Matteo e di Alice

One Comment

  1. Franca Rita Porcu

    Un testo molto bello.

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