Rallenta il treno di Matteo [di Lucia Annunziata]

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L’Huffington Post 01/06/2015. Il treno del Pd , e di Matteo Renzi, rallenta. Non è solo una questione di velocità, quale pure è – il Pd perde voti rispetto alle europee. E non è nemmeno solo questione di rinnovamento, quale pure è . È che il voto delle regionali disegna una realtà italiana molto diversa da quella che la “narrativa” di questi ultimi mesi ci aveva consegnato. Il Partito della Nazione, la nuova pelle che nell’immaginario della sinistra al governo avrebbe dovuto essere la forza trainante di una rinascita nazionale post-idologica, nei fatti non esiste.

Il Pd a guida Renziana non sfonda a destra, anzi la destra se unita si difende bene; e non riesce a sottrarsi ai condizionamenti della sinistra. Rimane il primo partito ma mostra segni interni di grande fragilità. Al contrario, le forze che la narrativa ufficiale chiama “antisistema” non arretrano, anzi si rafforzano. La prima di queste forze potremo chiamarla “astenemos“, cioè tutto quello che possono dare i cittadini italiani al posto del “podemos” spagnolo – alle urne è andato solo il 53 per cento dei votanti, dando allìastensionismo la incredibile forza elettorale di un cittadino su due.

La seconda forza “antisistema” (uso questo termine molto discutibile fra virgolette per indicare che questa è la valutazione della narrativa ufficiale) è il movimento 5 stelle, che è il primo partito in 3 regioni, e si assesta in generale intorno al 22 per cento – una percentuale di poco sotto quella raggiunta nelle politiche del 2013, con la leggera perdita compensata da una autonomizzazione dei nuovi protagonisti dai vecchi vertici, che ha portato l’ex movimento all’abilità e all’organizzazione con cui ha combattuto regione per regione. In due anni il M5S ha acquisito un peso politico che promette una interessante nuova dialettica in Parlamento.

Terza forza, anche questa descritta come “antisistema“, è la Lega, che ha fatto ottime performance in tutte le regioni del Nord – e di cui il secondo posto in Toscana è forse la più notevole – superando quasi dappertutto Forza Italia.

La curiosa proiezione di tutto questo è che se queste elezioni fossero state politiche, il risultato che avremmo oggi sul tavolo non sarebbe molto lontano dall’impasse che nel 2013 portò Napolitano a decidere di non dare a Bersani l’incarico per affidarlo a Letta. Non è proprio così, perché l’attuale Pd rimane più forte di quello di Bersani e rimane nelle mani di un leader che ha molto più progetto e determinazione dei suoi predecessori. Ma la comparazione con il 2013 racconta bene come la strada che Renzi ha finora avuto l’impressione di fare non è stata tanta quanto credeva: l’Italia su cui il Premier governa non è così incardinata intorno alla sua figura o così unificata dalla forza del nuovo Pd da lui rifondato. Al contrario, il Pd che esce da questo voto mostra molte fragilità.

Intanto è oggi un partito a trazione meridionale. La vittoria di De Luca porta al Pd la Campania, dopo tanti anni di centrodestra. La vittoria di Emiliano in Puglia conferma la regione alla sinistra. Entrambe chiudono il cerchio di un Sud che a questo punto (con Sicilia, Calabria, Abruzzo, Basilicata e Sardegna) è tutto del Pd, come da anni non succedeva. Tuttavia, la compattezza di questo quadro è inficiata dalla forza dei politici che hanno la guida di queste regioni, ognuno dei quali ha tale controllo del consenso locale da avere il destino del Pd nelle proprie mani e non viceversa. Il rapporto con questi signori del consenso, necessariamente molto autonomi, con il Premier non è stato e non sarà facile. Come si è visto anche nella campagna elettorale Renzi non li domina, e non ne è necessariamente rappresentato.

Succede così che il progetto renziano, che nasce al nord e si nutre di una serie di valori di modernità che hanno casa al Nord, oggi vive in buona parte del Sud. Condizione nuova e interessante. A fronte, soprattutto, del fatto che il Partito democratico si rivela molto fragile invece proprio nelle sue sedi storiche: le famose regioni rosse.

La Toscana, dove pure il governatore Rossi ha vinto molto bene, è stata scavata dall’astensionismo – solo il 48 per cento è andato a votare. La storica Umbria è stata molto combattuta. Perdita clamorosa quella della Liguria, dove la sconfitta è certo da attribuire alla competizione del secondo candidato di sinistra. La sconfitta lascia uno strascico di rancori interni, ma al contempo è un forte avvertimento per Palazzo Chigi a non sottovalutare l’importanza della sinistra italiana e dello stesso Pd. Se si aggiunge a questo voto il forte astensionismo delle elezioni in Emilia Romagna pochi mesi fa, il quadro dell’indebolimento delle sedi storiche del Pd è completo.

Il Nord, infine, torna invece a trazione di destra. Soprattutto della destra leghista. La vittoria di Forza Italia in Liguria ferma il declino del partito di Silvio Berlusconi, e cancella del tutto (o almeno dovrebbe) ogni tentazione di rinnovo del Patto del Nazareno. FI vince dove si oppone a Renzi e dove, come in Liguria, si ricompatta con Ncd. Soffre invece ogni divisione, come si è visto con il buon risultato di Fitto in Puglia. Nessuno di questi risultati ferma tuttavia la Lega che a livello nazionale supera Forza Italia.

È una nuova geografia, come si vede, che innesca nuovi meccanismi. A destra ne esce scosso l’assetto fin qui sperimentato. L’M5s trova in queste regionali la piattaforma per un nuovo rilancio nazionale. Ma sarà soprattutto Matteo Renzi a dover molto riflettere sul corso dei futuri eventi. Anche se questo non è stato un voto sul governo, è certo una severa valutazione dello stato di salute della “rivoluzione” renziana.

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