Prezzo del latte e innovazione. Il momento è oggi [di Nicolò Migheli]

14_43_20080625121319

Due anni fa sarebbe stato il sogno di un inguaribile ottimista. Oggi il latte di pecora sardo è il più pagato al mondo. Un prezzo che non ha niente da invidiare a quello corrisposto ai cugini concorrenti del Roquefort. Lo racconta bene Antonello Carta, nell’articolo pubblicato in questa rivista. Ancora una volta però tutto un settore in mano praticamente ad un solo prodotto, visto che il Pecorino Romano rappresenta il 60% di tutta la produzione. Da oltre cento anni quel formaggio è il dominus, l’artefice delle montagne russe in cui vive il settore più importante dell’agricoltura sarda.

La relazione tra Wall Street e i nostri ovili era stata capita dai pastori fin dall’esordio della presenza degli industriali romani in Sardegna. Questa volta però c’è un elemento in più. Il Romano passa da commodity a speciality cheese. Abbandona l’indifferenziato del prodotto da grattugia per diventare anche prodotto da tavola. In questo modo raggiunge prezzi insperati. Bisogna riconoscere che sono stati fatti passi importanti. Molti caseifici hanno ridotto il tenore di sale, passando dal 7 al 4-3%. Ne consegue che si ha un formaggio che, oltre a rispettare gli imperativi dietetici della diminuzione del sodio negli alimenti, rivela insospettate complessità di gusto.

Può bastare? In un mondo in continua evoluzione, con una concorrenza spietata, accontentarsi significa rinunciare ad una leadership appena raggiunta. Tralasciando le congiunture finanziarie e del cambio, che non sono controllabili dalla Sardegna, occorre ancora una volta diversificare. A costo di essere impopolari bisogna fare in modo che quel 60% di Romano, diminuisca ancora di qualche punto, non per altro, la storia insegna e l’ottovolante del prezzo è sempre dietro l’angolo.

Vi è anche un’altra ragione, può un intero settore essere legato alle dinamiche di prezzo di un solo prodotto? Oggi è il tempo di rafforzare le altre due dop, Pecorino Sardo e Fiore Sardo. Non si capisce, infatti perché molti caseifici preferiscano i marchi aziendali a quelli europei. Il Fiore poi dovrebbe ritornare ad essere quello che è sempre stato, prodotto direttamente dai pastori, Oggi in molti casi non è più così e la qualità, l’immagine stessa ne sta risentendo.

In questi anni si sono compiuti molti progressi innovativi, sono comparsi pecorini a caglio vegetale, a basso tenore di lattosio, erborinati, certificati per l’alto tenore di CLA, pecorini stagionati con le stesse metodologie del grana. Tutti prodotti che si rivolgono a segmenti di consumatori che si stanno allargando sempre di più. Ad esempio il formaggio a caglio vegetale incontra un mercato di vegetariani – dal 3 al 7% dei consumatori italiani nell’arco di cinque anni – e quello molto vasto della Kasherut ebraica e dell’Halal islamica.

Il Pecorino Romano, potrebbe entrare in questi percorsi di diversificazione. Mi dicono che esista già una piccola produzione senza lattosio, ma si potrebbe seguire l’esempio del Parmigiano Reggiano, riserve stagionate di 24, 30, 40 mesi, anche di 60. Piccole produzioni ad altissimo valore aggiunto, sempre che sia possibile realizzarle con il latte di pecora. Una altra innovazione potrebbe essere quella di una riserva a latte crudo. Una tipologia di prodotto sempre più richiesto.Per un caseificio industriale non è facile, si potrebbero però selezionare conferitori e con loro intraprendere un percorso comune.

Resta l’ultima domanda che poneva Antonello Carta, come fare perchè questa nuova abbondanza sia un fattore di sviluppo generalizzato per le aree rurali?

Bisogna dire che in questo momento le imprese pastorali stanno curandosi le ferite di anni di crisi, di esposizioni bancarie, ma in futuro, come è sempre stato, la ricaduta ci sarà. Perché ciò avvenga occorre continuare nell’innovazione. Occorre che i giovani ritornino in campagna e che lo facciano provvisti di titoli di studio e di competenze tradizionali che solo l’ovile può dare.

A proposito, quando una scuola di pastorizia sull’esempio dei malgari trentini? Una scuola dove si sommino conoscenze teoriche e quelle competenze tacite che solo un pastore anziano può trasmettere?  Forse ancora una volta, sarà la pastorizia a salvare la Sardegna, con buona pace di chi sull’onda della Rinascita e del banditismo voleva cancellarla.

Lascia un commento