L’innovazione e il suo feticcio [di Silvano Tagliagambe]
Roma, del 1972, non è certamente il miglior film di Federico Fellini, né quello di maggior successo. Eppure, sparsi qua e là, vi sono momenti di una profondità tale da mettere a nudo, in modo straordinario, il carattere paradossale della nostra epoca. Il momento forse più riuscito di questo esercizio di denuncia è la scena della “Rassegna della moda ecclesiastica”, dove si fotografa una situazione nella quale la religione e la fede vengono assoggettate alla moda, alla rapida evoluzione dei paramenti sacerdotali che li rende oggetto di consumo, e quindi li attrae nella spirale dell’obsolescenza. Fino alla scena finale in cui tutti, laici, sacerdoti e cardinali, rimangono abbagliati di fronte allo sfarzo di una moda talmente luccicante, autoreferenziale e quindi autosufficiente, da apparire divinizzata e venire adorata, al punto che tutti si inginocchiano di fronte a essa. Ecco il paradosso: lo schiacciamento sulla contemporaneità, sul presente che consuma se stesso, su un cambiamento che rende immediatamente demodé tutto, anche ciò che dovrebbe durare, lo sottomette a un’erosione che lo priva di profondità, di legittimità e di spessore. Nel momento in cui anche la religione e la fede vengono sottomesse ai dettami della moda decretiamo la morte della durata, dei valori che dovrebbero resistere all’usura del tempo, della verità che non a caso i greci chiamavano Aletheia, combinazione di alfa privativo e riferimento al Lete, il fiume dell’oblio, che cancellava ogni traccia di memoria, proprio per sottolineare che “vero” è solo ciò che è capace di opporsi all’usura e al consumo del tempo. Questo vissuto tutto schiacciato sulla contemporaneità, di cui sono emblema la moda e la continua obsolescenza dei prodotti di cui è costellata la nostra quotidianità ben colta da quella pubblicità che ci mostra nell’atto di liberarci nei modi e con le scuse più assurde dal cellulare ormai demodé che possediamo per sentirci autorizzata all’acquisto dell’agognato ultimo modello ci dà l’illusione che il nostro sia il mondo dell’innovazione già realizzata e conquistata, ormai alla portata di tutti. Così, tutti presi dall’efficienza e dalla super-performatività del nostro smartphone, che ci mette in condizione di parlare con un nostro amico che si trova all’altro capo del mondo e di essere raggiunti in ogni luogo e in ogni istante di tempo da chiunque si voglia mettere in comunicazione con noi, tendiamo a dimenticare che, mentre lo usiamo per provare l’ebbrezza della contemporaneità, magari passeggiamo nel corso della nostra città il cui asfalto è pieno di buchi mal rappezzati ed è infestato da topi e blatte, segni inquietanti e inequivocabili della presenza incombente del non contemporaneo nel nostro contemporaneo, della sovrapposizione di tempi storici diversi che tendiamo a rimuovere perché crea imbarazzo. È questo il destino di un’innovazione che si nutre di esteriorità, di apparenza, anziché innervare le nostre vite e dare a esse opportunità davvero inedite, capaci di modificarle intimamente e in profondità. L’innovazione basata sull’esteriorità e sull’apparenza si nutre di obsolescenza e a sua volta l’alimenta, condannandoci alla precarietà. È l’innovazione che convive con lo stato desolante delle periferie delle nostre città, con l’inarrestabile decadimento dei servizi, con le catene del subappalto private di qualsiasi diritto, con il precariato utilizzato come strumento di pressione, con il declino e il degrado delle funzioni urbane pregiate la cultura, la ricerca, l’istruzione e la formazione, i trasporti pubblici e la logistica, tutto ciò che trasforma davvero un agglomerato di case in un’urbs. Per farla breve: è il feticcio dell’innovazione, una contemporaneità continuamente punteggiata e costellata, come il formaggio con i buchi, di lacune, di pozze di non contemporaneità. Non è innovazione e non ha nulla a che vedere con essa: è una tecnica di accelerazione del tempo, e quindi di consunzione della vita, applicata a oggetti, ambienti, persone, forme di vita e stili di pensiero. L’innovazione, quella vera, di cui non c’è traccia nelle nostre città e tanto meno nei nostri paesi, è quella dei processi lenti che generano un’accelerazione e una diffusione che poi retroagiscono sulla lentezza che le ha prodotte, radicandole e dando loro consistenza e spessore, prima ancora e più che velocità. È quella delle reazioni autocatalitiche, nelle quali uno dei prodotti della reazione stessa, è in grado di aumentare la velocità del processo globale, comportandosi come un vero e proprio catalizzatore. Pensiamo alla conoscenza: di per sé è un processo lento, che esige meditazione, riflessione, e dunque tempo, senza i quali non potrebbe darsi, e che non si consuma, ma anzi si consolida, che se è autentica non passa mai di moda. Essa è un prodotto dell’evoluzione naturale che retroagisce su quest’ultima, cioè sul processo che l’ha generata, incrementandone in modo spettacolare e sempre di più il ritmo di sviluppo. Ecco che cos’è l’innovazione autentica: una straordinaria combinazione di lentezza e velocità (ricordate il “festine lente”, il motto “affrettati lentamente” attribuito da Svetonio all’imperatore Augusto, che unisce in una efficace endiadi i due concetti, apparentemente divergenti, di velocità e lentezza?), di flemmatica calma che produce velocità e ne viene accelerata, senza però trasformarsi per questo in obsolescenza, in oggetto di consumo. Questa è l’innovazione come cultura e non come feticcio, l’innovazione che non vive di apparenza, ma di processi che non ammettono scorciatoie né lustrini, che esigono la capacità vera, autentica questa sì ormai demodé di prendersi davvero cura delle citta che si amministrano e dei cittadini che le abitano. Questa innovazione, per essere realizzata, richiede una politica che incarni e sappia esprime quell’ideale perenne così ben espresso da Socrate nel Gorgia platonico: “Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, a capire cje cosa sia davvero la politica, e credo di essere il solo a fare davvero politica di questi tempi. Nel senso che tutto quello che dico, lo dico non per compiacere la gente o per rendermi gradito, ma per perseguire il bene” (Patone, Gorgia, 521 E). |