Il riscatto di Bill e il miracolo delle sei sambuche [di Dario Celli]
Alla rada del porto di Napoli, la motonave“Montevideo”da qualche giorno era in attesa.La sua partenza era prevista per il 23 dicembre. Avrebbero passato il Natale navigando i passeggeri che quel giorno, dal mattino presto, uno ad uno o a piccoli gruppi, iniziarono a salire e a prendere posto. E poi anche Capodanno, e poi anche l’Epifania. Emozionati, storditi, impauriti: oddio, qualcuno sarà stato anche felice, euforico, ma in generale possiamo immaginare quale potesse essere lo stato d’animo di chi si stava imbarcando, in quel momento, per l’America. Sapendo benissimo che difficilmente avrebbe più rivisto l’Italia, i propri cari, la propria casa, il proprio paesino. Fra le centinaia di passeggeri, quel giorno, si imbarcò un giovane di 21 anni: il suo nome – come si legge nel registro degli imbarchi compilato per le pratiche di immigrazione – era Giovanni De Blasio. Di lui, il registro ci dice anche qualcos’altro. Che era “Maschio, single, di professione ‘domestico’, in grado di leggere e scrivere, di nazionalità italiana, di razza italiana del sud, con l’ultima residenza a S. Agata dei Goti, provincia di Benevento, con destinazione finale New York, possessore di regolare biglietto pagato dal fratello Di Blasio Giuseppe”. A fianco – nella casella dove l’immigrazione doveva annotare se il passeggero fosse “in possesso di 50 dollari o meno” – la risposta: “Dollari 2”. Con lui, ci racconta lo stesso documento, viaggiava la sorella Amelia, anni 16. La storia di Giovanni De Blasio nel Nuovo Mondo ad un certo punto si intreccia con quella della famiglia Briganti. Questi ultimi erano partiti dalla Basilicata, e qui siamo nell’ultima metà del 1800. A quel tempo, si moriva davvero di fame da quelle parti, e racimolare i soldi per una pagnotta di pane era il miracolo quotidiano da raggiungere. Innocenzo Briganti era un contadino che viveva a Grassano, paesino della provincia di Matera che non regalava molte speranze ai suoi cinque figli; tanto che quattro di loro, tra il 1895 e il 1905, furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti. Fra loro c’era Anna, che era ragazzina quando arrivò nel Nuovo Mondo: poco più di 15 anni. E fu qui, a Nuova York, che Anna Briganti conobbe Giovanni De Blasio. Era bellissimo, quel Giovanni: un “marcantonio”, alto, molto più alto di tutti i ragazzi del paese, ed era forte, robusto, ma soprattutto – oltre ad essere italiano – era appunto bello, bellissimo. Fu un colpo di fulmine, e Anna se ne innamorò come una matta. E appena potette lo sposò. Fu dall’unione di Giovanni De Blasio e Anna Briganti, che nacque Dorotea De Blasio. Dorotea, però, non seguì le tradizioni di famiglia: non sposò un italiano. Conobbe infatti Warren Wilhelm, un militare con genitori di origine tedesca, e talvolta le donne sono specialiste ad innamorarsi di uomini problematici. E che problemi, poveretto. Soldato nella Seconda Guerra Mondiale, Warren partecipò da ufficiale alla battaglia di Okinawa, la più importante nel teatro del Pacifico: tre mesi di guerra continua, giorno e notte, che provocò (solo quella battaglia!) 68 mila morti fra gli americani e 66 mila fra i giapponesi. E quella era solo l’ultima di decine battaglie crudeli alla quale il giovane Warren partecipò. E da questa tornò senza una gamba e con la mente turbata e sofferente. Quei ricordi, per lui, presto divennero incubi, e quegli incubi non impiegarono molto a divenire ossessioni incontrollabili.L’ex militare Warren Wilhelm, una volta diventato civile, riprese gli studi laureandosi in Economia nientemeno che alla prestigiosa università di Harvard. Ma i suoi scritti sulla Storia dell’Unione Sovietica e sul movimento operaio in Europa (e una moglie iscritta al sindacato) attirarono inevitabilmente l’attenzione delle autorità. Erano gli anni della Guerra Fredda e del Maccartismo, e non ci volle molto perché l’uomo non finisse sotto indagine del “Loyalty Board”, l’organismo che aveva il compito di identificare i “focolai comunisti” in America. Una vera persecuzione, che si unì allo stress psicologico post bellico. Warren Wilhelm si trovò così imprigionato in una tristissima spirale autodistruttiva: schiavo dell’alcol e disperato autore di violenze domestiche. Proprio in quel periodo – era l’8 maggio 1961 – nasceva Warren Wilhelm Jr., detto Bill. Anche se la famiglia abitava a Cambridge, in Massachusetts, Warren Jr. nacque in un ospedale di Manhattan, proprio di fronte alla Gracie Mansion, la residenza ufficiale del sindaco di New York. Nella bellissima Cambridge il piccolo Bill assistette, poco per volta, alla fine psicofisica del padre. Fino a quando la madre Dorotea De Blasio non decise di troncare quella relazione andandosene da casa con il bambino. Bill – mentre vedeva un padre ormai lontano e giorno dopo giorno sempre più devastato dall’alcol, dagli incubi di una guerra per lui praticamente mai finita, e dalla depressione – venne così cresciuto dalla madre, e soprattutto dai nonni, i genitori di lei. Quanto fu dolorosa quell’esperienza per quel ragazzino lo capisce facilmente anche chi non ha mai vissuto cose del genere. Una storia, la sua, tra l’altro, abbastanza simile a quella che visse da ragazzo l’ex Presidente americano Bill Clinton. Tipici potenziali esempi, i due (ma io ci aggiungerei anche il Presidente Barak H. Obama), di “gioventù pericolante”, come li avrebbe definiti don Bosco. “Pericolanti”: quasi predestinati, insomma, a una non bella fine. Ma – con tutto il rispetto – questa storia si svolge in America. E come spesso succede (soprattutto in America) i grandi riscatti spesso si vivono dopo aver “toccato il fondo”. Nel luglio 1979, dopo una diagnosi di tumore ai polmoni, Bill Wilhelm Senior scomparve improvvisamente nel nulla. Dopo due giorni di ricerche, lo rintracciò la polizia: scoprì che aveva preso una stanza al Rocky River Motel di New Milford, in Connecticut. Nel parcheggio davanti ad una stanza c’era la sua auto. E lui era dentro, morto a causa un colpo di fucile che si era sparato al cuore e che gli aveva devastato il torace. Bill aveva 18 anni. Quattro anni dopo – con naturale e istintiva riconoscenza verso la famiglia materna – Bill Wilhelm decide prima di accostare formalmente al suo cognome quello della madre, “De Blasio”, poi di scegliere nel 1990 esclusivamente quello materno. La burocrazia americana non rompe le scatole quando si vuole cambiare cognome e al giudice che ne chiedeva il motivo lui si limitò a dire “Mi sono reso conto che questa è la mia vera identità”. Come per magia, proprio in quegli anni, iniziò il riscatto di Bill. I nonni Giovanni e Anna – quelli che in braghe di tela arrivarono in America nel 1905 da un’Italia del sud che moriva di fame – insieme alla madre Dorotea lo marcarono stretto e lo tirarono su per bene. E così, per quel ragazzo, dopo la scuola dell’obbligo arrivò il college. E dopo il college, l’università. Anzi, le università. Una laurea, Bill De Blasio la prese alla New York University, mentre la seconda arrivò grazie ad una borsa di studio che vinse e che gli permise di frequentare la Columbia University. Dove Bill De Blasio, alla seconda laurea, aggiunse anche un master in Affari Internazionali Faceva politica, all’università. Da studente il suo primo appartamento a Manhattan lo affittò a Soho: anzi era un subaffitto illegale. E per questo venne sfrattato. Pacifista, era un simpatizzante del Partito Democratico, anche se le sue opinioni erano un bel po’ più radicali. Anni dopo venne eletto consigliere comunale per il Partito Democratico, a Brooklyn, e poi iniziò il lavoro all’Ufficio per la difesa dei cittadini, dove è “public advocate”, “difensore civico”. Nel frattempo Bill De Blasio conobbe Chirlane McCray, giovane poetessa afroamericana, femminista e attivista dei diritti delle donne lesbiche. Si “annusano” per un po’, si innamorano, e si sposano. Quando all’inizio di quest’anno Bill De Blasio ha iniziato ad essere in odore di candidatura, qualche giornale di New York vicino ai repubblicani ha pensato di fare uno scoop rivelando le relazioni sentimentali – peraltro da lei mai nascoste o negate – che in passato la moglie Chirlane aveva avuto con donne, ripescando negli archivi una sua pubblicazione del 1979, in cui lei si dichiarava lesbica. Giusto per ribadire che tipi fossero, Bill e Chirlane quando si sposarono scelsero come meta del loro viaggio di nozze nientemeno che Cuba, alla faccia dell’embargo in vigore dagli anni ’60, dopo l’arrivo dei comunisti di Fidel Castro e Che Guevara all’Avana. D’altronde da giovane, Bill De Blasio non aveva mai nascosto la sua simpatia per la Rivoluzione Sandinista del Nicaragua, quella rivoluzione socialista che nel 1979 – dopo la fine degli aiuti americani finalmente decisa dal presidente democratico Jimmy Carter – depose il dittatore Anastasio Somoza, la cui famiglia, come una monarchia, si tramandava il potere assoluto dal 1936. Dal matrimonio fra Bill e Chirlane nascono due figli, e la coppia è talmente innamorata dell’Italia – ogni tanto la visitano, non dimenticando mai di passare dai paesini dei nonni di lui – che decidono di dar loro due nomi da Divina Commedia: Dante e Chiara, che oggi hanno rispettivamente 15 e 18 anni. Partita dalle assemblee all’università, l’esperienza politica di Bill De Blasio passa dall’essere prima un semplice attivista del Partito Democratico, poi consigliere dell’ultimo sindaco democratico di New York, David Dinkins (era il 1990), incarico che gli fa guadagnare un posto nello staff del Presidente Clinton alla Casa Bianca, prima, e poi quello di capo dello staff della campagna elettorale al Senato di Hillary Rodham Clinton nel 2000. All’inizio di questo 2013 matura la decisione di presentarsi come candidato alla poltrona di sindaco di New York, dopo i tre mandati consecutivi occupati da Michael Bloomberg, i primi due come Repubblicano, poi – smarcatosi dall’ingombrante ombra di George W. Bush – come indipendente. La sua ultima battaglia prima di infilarsi nell’avventura delle primarie del Partito Democratico, è stata quella contro la chiusura di alcuni reparti (pronto soccorso, terapia intensiva, radiologia e distribuzione farmaceutica) del Long Island College Hospital, decisa dal Dipartimento della Salute dello Stato di New York. Una dura battaglia: legale e di piazza. Con scontri e arresti. Questo è, insomma, il bagaglio politico che ha portato nella sua campagna elettorale. Salvatore Barletta, che ha un bar a Brooklyn, in un servizio andato in onda al Tg1 ha raccontato a Giovanna Botteri di esserselo visto davanti uno dei primi giorni di campagna elettorale: “Mi ha detto a me: ‘Sto andando per sindaco’, e io c’ho detto: ‘Paisà, ma qui nessuno ti conosce! Devi andare più fuori, ti devi far vedere! Devi dimostrare alla genti cosa sei: sei un italiano a New York!’. E allora c’abbiamo bevuto sei sambuca, e lui è uscito fra la gente…”. Saranno state o no quelle sei sambuche, sta di fatto che da quel momento, Bill il gigante, inizia a macinare chilometri, iniziando proprio dalla Little Italy di Brooklyn, per coccolare quello che doveva per forza diventare lo “zoccolo duro” del suo elettorato. Entra dentro ai circoli, stringe mani agli anziani italo-americani che se ne stanno seduti fuori, sul marciapiede, come se fossero ancora in Italia, “al paese”. E nei circoli italiani parla delle sue idee a coloro (gli italo-americani!) che tradizionalmente tanto progressisti mica sono, e che infatti alle ultime due presidenziali hanno sempre preferito il candidato repubblicano al democratico Barak Hussein Obama. Con loro parla il dialetto che gli hanno insegnato i suoi nonni, con quelle parole di inizio ‘900 che si sentono solo nella Little Italy di Brooklyn e che nessuno usa più in Italia. Ascolta i consigli, incassa i complimenti e gli incoraggiamenti. Mi pare di vederlo Ia domenica mattina davanti alla pasticceria “Villabate Alba”, dove nei giorni di festa gli italo-americani di “Broccolino” fanno la coda per portarsi a casa una cassata, o vassoi giganteschi di cannoli siciliani “fatti con la vera ricotta”, o le “ostie di Monte sant’Angelo”, o i bignè ripieni di crema o enormi “funghi al cioccolato”. E mi pare di vederlo lì – fra biscotti, pasticcini, torte, bomboloni, pizzette, vasche di gelato, statue della Madonna, di Sant’Antonio e fotografie di padre Pio – a parlare con tutti, ad ascoltare, prendere nota, finendo con un saluto veloce e i classici (e italiani) due baci sulle guance (gli americani se ne danno solo uno…). I sondaggi non erano dalla sua parte: prima delle primarie democratiche risultava quarto fra i candidati del suo partito e solo due newyorkesi su dieci, in quel periodo, ammettevano di aver anche solo sentito il suo nome. Vedete? Aveva proprio ragione Salvatore Barletta, quello del bar di Brooklyn… Ma alla fine, incontro dopo incontro, comizio dopo comizio, ce la fa, vince le Primarie Democratiche e viene scelto come candidato del Partito. Ma anche in questo caso, all’inizio della campagna elettorale per la City Hall, per il Municipio di New York, i sondaggi lo danno ancora per ultimo.
Dobbiamo tornare a camminare in una città unita e solidale. La nostra città non deve lasciare indietro nessuno. E poi New York non è solo Manhattan! Mi dicono che le mie sono idee ambiziose, ma per me sono solo buone idee. Dobbiamo avere pazienza, perché anni e anni di diseguaglianze non possono essere risolti in un secondo. Ma si deve sapere che l’era Bloomberg è finita”. Una campagna piena di retorica e dai toni populisti, scrive qualcuno.Ma lui, incurante, ripete queste frasi come un mantra, alternando l’americano allo spagnolo, e non dimenticando mai qualche accenno di italiano. E poco gli importa dei titoli in prima pagina di uno dei più importanti quotidiani della città, che lo invita a tornarsene in Unione Sovietica. E ancor meno immagino lo abbia mai sfiorato l’acida italica ironia de “Il Giornale” di Vittorio Feltri, che due mesi fa lo definiva “l’uomo delle tasse, una specie di ‘Mulino Bianco’ multiculturale”, che a tutti gli appuntamenti elettorali “esibisce ampiamente” la “moglie afroamericana ed ex lesbica”, e i figli Dante e Chiara. Che ambedue frequentano scuole pubbliche. E lui, che se ne frega, si presenta ai comizi con tutta la famiglia – cosa, peraltro, che tradizionalmente fanno tutti i candidati americani – e partecipa a manifestazioni indette dai gruppi LGBT (lesbian, gay, bisexual, transgender). Ironizza, il quotidiano di Feltri e Sallusti, anche sul video che Dante – il figlio quindicenne di Bill De Blasio, con quei suoi capelli da “black power” (Ohibò! mi ricorda “qualcuno” alla sua età…) – pubblica su You Tube e che viene visto da centinaia di migliaia di persone. E non è che il giovane Dante le mandi a dire. Anche lui è assai esplicito. “Voglio raccontarvi qualcosa su mio padre – dice –: Bill è l’unico che avrà il coraggio di rompere con gli anni di Bloomberg. Sarà l’unico ad avere il coraggio di tassare i più ricchi per aiutare la gioventù a crescere, e sarà l’unico che farà costruire alloggi a prezzi accessibili e a chiudere con la pratica adottata dalla polizia dello ‘stop&frisk’, che ingiustamente prende di mira soprattutto neri e ispanici. Ma Bill de Blasio sarà il sindaco di ogni newyorkese, indipendentemente da dove viva o da che aspetto abbia. E direi la stessa cosa anche se non fosse mio padre”. Alla faccia dell’ironia del duo “Feltri-Sallusti”, il video, invece, ha fatto effetto eccome, visto che sei newyorkesi su dieci hanno poi affermato di aver deciso di votare De Blasio proprio dopo aver visto lo spot del figlio. Oggi, com’è andata, lo sappiamo: populista o no, Bill De Blasio il democratico, è diventato il 109° sindaco di New York, quarto italiano a raggiungere la poltrona della City Hall, ma di gran lunga il più “a sinistra” e il più votato fra i suoi predecessori di partito. Lo scrivo spesso, qui, che l’America è sempre lì, pronta a stupirci, prendendoci in contropiede. I sondaggi degli ultimi giorni lo davano sempre vincente, ma con al massimo il 65% delle preferenze. Mentre alla fine Bill De Blasio è stato scelto dal 73% dei votanti. Non lo hanno, insomma, votato solo gli italo-americani, o gli iscritti ai sindacati, o i simpatizzanti dell’ala più radicale del Partito Democratico. E’ evidente che anche della classe “medio-alta” della Grande Mela, lo ha scelto, ritenendo meno credibile il candidato Repubblicano Joe Lhota. Classe “medio-alta” di New York che con quel voto si è detta pronta a fare qualche sacrificio per il rilancio di New York. Rilancio che passa anche dall’avere in città meno poveri, meno disperati, meno arrabbiati. 73% di preferenze: un dato che un sindaco a New York aveva raggiunto soltanto nel lontano 1897. E’ vero, la percentuale dei votanti è stata – come al solito – “all’americana”, piuttosto bassa: alle urne si sono infatti recate 1.020.000 persone sulle 4.600.000 registrate a New York, una flessione rispetto alle elezioni del 2009, 134.802 elettori in meno. Ma una più o meno uguale percentuale di persone si recò a votare nelle elezioni precedenti vinte da Michael Bloomberg, che però, allora, fu scelto soltanto dal 50,6% dei votanti. Ora si aspetta Bill De Blasio – il sandinista, il “comunista”, il sindacalista – alla prova. Con 300 mila dipendenti (il doppio dei dipendenti comunali di Roma, Milano, Torino, Napoli, Venezia, Palermo e Genova sommati insieme), De Blasio dovrà gestire un budget di 69 miliardi e 900 milioni di dollari all’anno. Roba da far tremare i polsi. Bill De Blasio è andato al seggio a piedi, partendo dalla sua casa di Brooklyn con la moglie, i due figli e un codazzo di giornalisti e simpatizzanti. Dopo aver votato nella Park Slope Branch Public Library, è uscito visibilmente commosso; come la moglie Chirlane, che aveva le lacrime agli occhi. E davanti ad un muro di microfoni e telecamere, colui che da lì a poche ore sarebbe diventato il nuovo sindaco di New York, ad un certo punto ha detto, in italiano: “Per me, questo è il sogno americano. Ho avuto due nonni arrivati qui poverissimi, e io oggi ho la possibilità di diventare sindaco della più grande città degli Stati Uniti, della più grande città del mondo. Ho un solo pensiero triste: che mio nonno, mia nonna e mia madre oggi non siano qui a vedere”. Poi si è fermato, ha alzato gli occhi da terra, ha sorriso, e dall’alto dei suoi quasi due metri ha detto:
*dal blog “Aria Fritta” – http://dariocelli.blogspot.com”
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