Una giornata al mare [di Antonello Farris])

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Una delle cose che Arturo coltivava con maggior passione era la pesca. La pesca subacquea, con muta, fucile, fiocina, e tutto quel che serve. Col passare degli anni però aveva limitato il periodo di pesca ai soli mesi estivi. Quell’estate in particolare si sentiva stanco, era già luglio e non era ancora uscito una volta.  Gli impegni di lavoro erano sempre più gravosi e poi cominciava ad avere cinquant’anni, non era più un ragazzino. Ultimamente a quella passione se ne era affiancata un’altra: l’impegno sociale. Si era iscritto, infatti, all’AIS, l’Associazione Intervento Sociale. Di tutte le questioni che lì si discutevano, una in particolar modo lo aveva interessato: il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria nelle nostre città. Lui era totalmente contrario all’ingresso d’immigrati, e avrebbe voluto interventi per fermare un fenomeno, a suo parere, negativo.  Anzi avrebbe approvato misure drastiche per rispedire tutti gli immigrati nei paesi d’origine.

Non gradiva incontrare per strada persone differenti da lui, uomini e donne di colore, vestite diversamente. Non gli piaceva trovarsi nel pullman in mezzo a viaggiatori dei quali non riusciva a interpretare l’espressione del viso, che parlavano strane lingue, che non permettevano di capire se fossero arrabbiati o se scherzassero, o se ti stessero prendendo in giro, o che altro. Insomma incontrare quella gente lo infastidiva, gli creava imbarazzo, ed era questa la ragione della sua intolleranza.  Anche nell’associazione, dove al venerdì sera s’incontravano per discutere, i suoi amici pensavano le stesse cose, e aggiungevano che non era una questione di razzismo. Giudicavano gli immigrati con diffidenza convinti che tutti fossero o delinquenti, o sanguisughe, intenzionati a portar via il pane alle loro famiglie.

Era l’ultima domenica di luglio, una giornata splendida, calda ma non afosa, ventilata, invitante. Arturo aveva deciso di trascorrerla al mare. Mentre lui preparava l’attrezzatura da sub, la moglie sistemava nella sacca frigo i panini e la frutta; una buona quantità di ambedue perché Arturo dopo due, tre ore di pesca, usciva dall’acqua affamato e chiedeva di poter mangiare in abbondanza.  Avevano deciso di arrivare a una certa caletta con le scogliere sul mare, nel retroterra le dune di sabbia. Un posto a quaranta chilometri da casa loro, difficile da raggiungere per via di strade sterrate e in cattivo stato, ma proprio per questo poco affollato. Alle dieci del mattino erano sul posto. Tecla, la moglie, aveva piantato l’ombrellone a ridosso di alcuni bassi ginepri sempreverdi, per godere di una maggiore frescura. 

Arturo intanto aveva indossato la muta e si preparava per la battuta di pesca. Aveva salutato con un cenno la moglie, le aveva detto che sarebbe rientrato per l’una e si era tuffato in acqua. In quelle ore di attesa Tecla sostava all’ombra e guardava il mare, sfogliava una rivista oppure leggeva un libro. Pensava soprattutto a suo marito che da qualche tempo, da quando cioè frequentava l’associazione, aveva accentuato l’intolleranza verso gli extracomunitari; era preoccupata perché lei la pensava molto diversamente, lei era per l’accoglienza, per il rispetto degli altri, bianchi, neri, o gialli che fossero. La sua preoccupazione era motivata dalla furia con cui il marito affrontava la questione. Il suo Arturo, che su tante cose era sempre stato comprensivo e accomodante, su questo tema si dimostrava aggressivo, come accecato da un odio atavico, per lei incomprensibile. E, infatti, dopo alcuni episodi aveva deciso di non ritornare su quell’argomento che le era sembrato perfino pericoloso per il loro rapporto, come un veicolo che avrebbe potuto minacciare la loro unione.

Tecla era arrivata al punto di nascondere molte sue letture, perché queste in qualche modo irritavano il marito, quando gli argomenti trattati lasciavano intuire atteggiamenti favorevoli all’accoglienza degli immigrati.  Si era resa conto del grado d’intolleranza del marito un giorno che, terminata la lettura di un libro molto attuale sul fenomeno sociale delle migrazioni, l’aveva lasciato in vista sul comodino della camera. Arturo vedendo quel saggio, del quale conosceva i contenuti perché ne avevano discusso in associazione, si era letteralmente infuriato. Aveva preso con sé il libro, era sceso di sotto e lo aveva scaraventato in un cassonetto della spazzatura. Tecla in quell’occasione non aveva reagito, era stata colta di sorpresa e aveva cercato di giustificare il gesto sproporzionato del marito con lo stato di stress in cui evidentemente si trovava.

Quel giorno al mare si era imposta di non pensare a quelle cose e aveva iniziato la lettura di un libro acquistato da Arturo, un romanzo giallo innocuo, una lettura di puro svago. Poco prima dell’una Arturo era rientrato dalla battuta di pesca, nella sporta c’erano tre orate di discrete dimensioni e un polpo. Come al solito era stanco e affamato, le labbra livide, le mani grinzose e molli. Mentre si liberava della muta e delle altre cose, Tecla aveva vuotato la borsa frigo per iniziare il pranzo. Arturo era di buon umore, il bottino di pesca l’aveva rinfrancato e caricato. Aveva anche detto che nelle domeniche successive avrebbe ripreso la caccia in quel tratto di mare. Poco prima dell’uscita, infatti, in un fondale profondo, aveva avvistato alcune cernie che non aveva potuto inseguire perché stanco e a corto di fiato. Dare loro la caccia richiedeva altrettanta scaltrezza e impegno.

Quindi avevano iniziato a mangiare i panini: Arturo i due più sostanziosi, farciti con la cotoletta e le melanzane. E poi dopo, la frutta: cubetti di anguria, albicocche, e fichi.  Dopo pranzo aveva steso la spugna sotto l’ombrellone e si era sdraiato a riposare. Tecla si era seduta sulla sdraio di fronte, e mentre continuavano a parlare di pesca Arturo aveva iniziato a socchiudere gli occhi. Un vento leggero rendeva piacevole la sosta all’ombra e come al solito disse che avrebbe dormito per una mezz’ora, il tempo sufficiente per ritemprarsi dopo la lunga battuta di pesca.

Quel torpore gli faceva percepire la realtà solo a tratti, e pian piano aveva preso sonno… All’improvviso da una duna di sabbia era saltato fuori un giovane di colore: aspetto dimesso, capelli arruffati, espressione sperduta. Arturo si era rimesso in piedi per osservarlo meglio. Il giovane si stava avvicinando al suo ombrellone, parlava a bassa voce, e in modo stentato pronunciava frasi in francese. Arturo, che conosceva quella lingua, era riuscito a fatica a capire le parole del giovane. Il ragazzo gli stava dicendo che era sbarcato durante la notte da un barcone, con altri suoi compagni. Erano arrivati dalle coste della Libia. Era un clandestino, cercava protezione, cercava qualcuno che lo nascondesse. La polizia già nella notte aveva fermato tutti i suoi compagni ma lui, nell’oscurità, era riuscito a sfuggire al controllo.

Non voleva finire nel campo di accoglienza per essere rispedito nell’inferno del suo paese. Arturo era rimasto interdetto non sapendo come comportarsi. Si era guardato attorno per assicurarsi d’esser solo. Il giovane aveva un’espressione così supplichevole che Arturo si era lasciato convincere.

Gli aveva allungato un asciugamano e gli aveva detto di coprirsi la testa, sdraiarsi e aspettare un minuto. Lui poi era corso incontro a Tecla che stava uscendo dall’acqua, le aveva raccontato rapidamente quanto era successo e l’aveva invitata a raccogliere le varie cose perché voleva rientrare a casa con il giovane. Tecla era stata molto rapida, aveva aiutato Arturo a caricare tutto in macchina e a sistemare il giovane nel sedile posteriore.

Gli avevano detto di sdraiarsi, di tenere l’asciugamano sulla testa e di non muoversi anche in caso di controlli della polizia lungo la statale. Erano rientrati a casa di gran fretta, nel condominio per fortuna non c’era movimento, solo alcuni bambini che giocavano in fondo al giardino. Il giovane nero era salito con loro nell’appartamento. Per qualche giorno, aveva detto Arturo, starà da noi, poi si vedrà il da farsi.

 La mattina dopo, di buon’ora, avevano suonato alla porta. Tecla aveva aperto e si era trovata davanti due carabinieri che chiedevano di poter entrare… Solo poche domande stringenti e Arturo aveva dovuto confessare. Aveva ammesso di aver dato ospitalità a un giovane extracomunitario clandestino e di averlo tenuto lì nel suo appartamento. I carabinieri avevano messo le manette al giovane e avevano chiesto ad Arturo di seguirli in caserma, anche lui sarebbe stato perseguibile penalmente e avrebbe rischiato tre anni di carcere. Lui a sentir queste parole era impallidito, si era accasciato ed era svenuto…Proprio in quel momento si era risvegliato dal sonno, lì, sotto l’ombrellone aveva sognato tutto, e che brutto sogno, un incubo! 

Si era guardato attorno, tutto era come prima: Tecla era nei pressi che parlava con una signora, sulle dune non c’era nessuno, lungo la spiaggia nulla di anomalo. Si era trattato di un sogno, un maledetto sogno che lo aveva proprio indisposto…lui dare soccorso a un negro puzzolente. Aveva cominciato a sudare, sudori freddi quasi fosse in preda a un infarto. Si era alzato, aveva chiamato Tecla che, vedendolo in quello stato, era accorsa spaventata. Lei aveva cercato di calmarlo, gli aveva dato un bicchiere d’acqua e lo aveva fatto sedere sulla sedia sdraio, all’ombra.

Pian piano Arturo si era ripreso. “Certo che lo spavento era stato grande”, aveva pensato Tecla. E lui aveva preso a raccontarle il sogno appena svanito. Un sogno che proprio non avrebbe mai immaginato di fare, lui che avrebbe buttato a mare tutti quegli straccioni. Lui che in un caso del genere avrebbe preso per il colletto il giovane, lo avrebbe steso a terra, gli avrebbe messo un piede sul collo e col cellulare avrebbe chiamato i carabinieri. Lui, che non li può vedere, aveva fatto un sogno nel quale accoglie simili delinquenti…- Che vadano al diavolo, che se ne stiano a casa loro! -, aveva concluso.

Tecla aveva ascoltato le imprecazioni del marito e non aveva avuto il coraggio di reagire, sapeva che sarebbe stato inutile, si era resa conto di quanto profondo fosse il suo sentimento di odio nei confronti di certe persone. Quel pomeriggio mentre rientravano a casa, avvilita e offesa, si era sforzata in tutti i modi di trattenere il pianto. Arturo non doveva sospettare che le sue parole erano state l’ultimo episodio di una situazione diventata insostenibile. Tecla la mattina seguente, non appena suo marito fosse uscito da casa per andare a lavoro, avrebbe fatto la valigia, sarebbe salita sul primo aereo e avrebbe raggiunto a Genova la sorella.

Il loro rapporto era definitivamente compromesso: la convivenza con un razzista era diventata per lei impossibile.

 

*Laureato in Fisica Già dirigente di Società nazionali ed in multinazionali. Scrive racconti

 

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