La guerra che l’Europa deve combattere [di Fabrizio Forquet]
Il Sole24ore.it 15 Agosto 2015 . La mossa cinese sul cambio del renminbi ha avuto il merito di rendere esplicita la partita che oggi si sta giocando nell’economia mondiale: quella di grandi aree economiche in dura competizione tra loro per garantirsi una crescita che in questi anni non è scontata in nessuna parte del mondo. Una “guerra mondiale per il lavoro”, recitava un bel libro di qualche anno fa. Ebbene i dati sul Pil dimostrano che quella guerra l’Europa deve combatterla con armi più incisive. Deve farlo l’Italia, certamente, deve farlo la Grecia, la Francia, ma deve farlo soprattutto la zona euro nel suo complesso, che resta, pur in una fase di ripresa, una delle aree mondiali a crescita più lenta. La stessa Germania, dominus delle politiche continentali, delude le aspettative fermandosi a una crescita trimestrale (0,4%) appena discreta. Ma è lo sguardo oltre i tre mesi che evidenzia lo scarso slancio della ripartenza europea. Gli ultimi cinque trimestri della crescita tedesca hanno fatto segnare -0,1 +0,2 +0,6 +0,3 +0,4; quelli della Francia -0,1 +0,2 +0,1 +0,7 0,0; l’Italia fa -0,1 -0,1 0,0 +0,3 +0,2; l’eurozona +0,1 +0,2 +0,4 +0,4 +0,3. Davanti a questi dati, e confrontandoli con quelli degli Stati Uniti (+1,1 +1,1 +0,5 +0,2 +0,6), con quelli – pur in frenata – della Cina (+2,0 +1,9 +1,5 +1,3) e del complesso del G-20 (+0,8 +0,9 +0,8 +0,7), è difficile parlare di un rilancio solido delle economie dell’eurozona. Servirebbe una frustata. E invece l’Europa appare paralizzata sul fronte delle politiche. Gli altri manovrano le leve dell’economia con tempestività e durezza: la svalutazione del renminbi è solo l’ultima delle sferzate dirigiste inferte da Pechino, mentre negli Usa siamo alla vigilia dell’uscita dell’allentamento quantitativo che noi solo ora abbiamo adottato. In Europa la Bce di Mario Draghi ha dovuto muoversi a ritmo lento tra mille ostacoli politici e tecnici, e sul fronte degli organi politici dell’Unione – il Consiglio europeo e la Commissione – si è registrata calma piatta. Molta moral suasion sul fronte delle riforme strutturali, ma “zero” sul fronte di quelle politiche di investimento che avrebbero potuto dare una spinta immediata per irrobustire questa lenta ripresa. “Zero” (forse “uno”, non di più, se si considera il piano Junker) sia a livello comunitario, dove pure le risorse sono reperibili, sia a livello di singoli Stati, dove certamente bisogna fare i conti con bilanci traballanti, ma dove ci sarebbero i margini per un’interpretazione meno rigida dei vincoli esistenti. È in questo contesto che va letto il caso specifico dell’Italia. Il caso di un Paese che è entrato nella crisi con un ritmo di crescita tra i più bassi dell’eurozona e che ora comincia a riemergere dalla crisi a un ritmo tra i più bassi. In una analisi pubblicata sulla “Voce.info”, Francesco Daveri evidenzia come la velocità di questa ripresa italiana sia ben più ridotta rispetto alle precedenti “riprese” del 2009, del 2005 e del 1999. Con questo ritmo ci vorranno anni per recuperare i livelli di ricchezza prodotta a inizio 2008. Eppure qualcosa si muove. È il secondo trimestre a crescita positiva (non accadeva dall’inizio del 2011). E questa volta, come sottolinea l’Istat, la spinta arriva anche dalla domanda interna. Una serie di indicatori, dalla fiducia agli ordinativi, passando per la produzione, fanno ben sperare per i prossimi trimestri. Questo vuol dire che l’obiettivo dello 0,7% di fine anno non dovrebbe essere messo a rischio, anzi che forse si può ancora fare qualcosa di meglio. Se vogliamo però che la ripresa acquisti davvero lo slancio necessario, bisogna fare ogni sforzo per politiche orientate alla crescita. Questo vuol dire insistere per una svolta della politica europea, in termini di investimenti e in termini di flessibilità nelle politiche di bilancio. Ma vuol dire anche rafforzare la determinazione sul fronte interno delle riforme. A cominciare dall’attuazione rapida e incisiva della delega sulla pubblica amministrazione, in modo da ridurre la zavorra burocratica che oggi è tra le prime cause a frenare gli investimenti. In vista della legge di stabilità, va poi fatto ogni sforzo sul fronte del costo del lavoro. Ora più che mai. Perché in piena crisi non ci sono sgravi che possano indurre un’impresa a fare assunzioni. Ma adesso che si fa strada una maggiore fiducia, rendere meno onerosi i rapporti di lavoro può diventare decisivo nelle scelte degli imprenditori. Gli ultimi dati dimostrano che, quando c’è convenienza, i nuovi contratti – anche a tempo indeterminato – si fanno. Al di là di tante discussione sul lavoro, infatti, al di là della questione drammaticamente vera di una innovazione tecnologica che spesso non è amica della creazione di nuovi posti, la realtà a volte è semplice: le imprese assumono se c’è la convenienza per farlo. Perciò oggi proseguire sulla strada dell’abbattimento del costo del lavoro, sia nella parte fiscale sia in quella contributiva, è una priorità che non va sacrificata ad altre esigenze nella legge di stabilità. Sarà un puzzle complesso, quello della manovra. E da ieri sappiamo che difficilmente la crescita ci regalerà un bonus di risorse in più da poter spendere. Ma se l’Italia, con l’Europa, vuole davvero combatterla questa guerra mondiale per lo sviluppo e per il lavoro, non potrà sbagliare una mossa. La crescita, quella vera, quella stabile e duratura, bisogna ancora meritarsela. |