Nomine dei direttori dei musei: ancora tre riflessioni [di Tomaso Montanari]

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1. Stranieri ed estranei. Come spesso succede nel nostro amato Paese, il dibattito ha immediatamente preso la peggiore delle pieghe: quella del surreale scontro sugli “stranieri”. Colpa della Lega, di Maurizio Gasparri, e anche del Movimento 5 Stelle che hanno sfoderato una penosa, e incomprensibile, retorica nazionalista: al (patetico) grido di «L’Italia agli italiani».

A onor del vero anche i commenti di alcuni degli esclusi hanno, poco decorosamente, cavalcato questa risibile tigre. Il direttore degli Uffizi Antonio Natali ha ironizzato in questi termini: «I knew I would not win the bid for the Uffizi when the government statistics office told me I could not change my name to Anthony Christmas». E il direttore dell’Accademia Angelo Tartuferi ha parlato di «sconfitta del nostro Paese», aggiungendo: «abbiamo inventato in Italia la tutela dei beni culturali e schiere di tedeschi sono venuti a studiarla da noi… Senza risentimento, ma mi pare che questi colleghi non siano idonei a colmare questo presunto vuoto».

A questo punto, osservatori come Roberto Saviano e Michele Serra hanno preso la parola per dire l’unica cosa sensata: e cioè che non c’è nulla di strano, né tantomeno di sbagliato, in un tedesco che dirige gli Uffizi. Sbagliato e strano è, anzi, trovarlo sbagliato o strano.

Tuttavia anche queste ovvie considerazioni sono state subito travisate, strumentalizzandole fino a leggerle come un endorsement alle scelte di Franceschini. Ma dire che è normale nominare un non italiano, non significa dire che la nomina di quel non italiano sia giusta a prescindere: altrimenti si cade nell’errore speculare. Perché esiste il provincialismo xenofobo di Gasparri, ma esiste anche il provincialismo esterofilo di chi pensa che basti non essere italiani per essere “nuovi“, o perfetti per la parte. Mentre il ministro Franceschini ha giustamente detto al New York Times che «it’s your CV that counts, not nationality».

Ma il punto, larghissimamente eluso dai commentatori, è proprio questo: le nomine sono o non sono giustificate dai curricula dei candidati? Perché il problema non sono gli stranieri: ma semmai gli estranei, e cioè coloro che non hanno nulla che a fare (culturalmente e scientificamente) con i musei che andranno a dirigere.

2. Curricula e procedure. Lo stesso ministro Franceschini ha scritto, in un editoriale sulla prima pagina dell’Unità renziana, che «Con queste 20 nomine di così grande levatura scientifica internazionale il sistema museale italiano volta pagina e recupera un ritardo di decenni. La commissione di selezione ha fatto un grande lavoro ed ha offerto al Direttore Generale dei Musei del Mibact, Ugo Soragni, e a me la possibilità di scegliere in terne di assoluto valore. I nuovi direttori sono sia stranieri che italiani e alcuni di questi ultimi tornano nel nostro Paese dopo esperienze di direzione all’estero».

Sul presunto ritardo tornerò nel terzo e ultimo punto di questo post. Qui vorrei notare che, per poter vendere il proprio compitino, il ministro è costretto a dire il falso, sbandierando una «grande levatura scientifica internazionale» che semplicemente non esiste. Idem per il «valore assoluto»: che manca. Attenzione: non voglio dire che tra i direttori non ci siano ottimi storici dell’arte e bravi curatori. Ma – come in queste ore stanno notando in molti (come la Associazione Bianchi Bandinelli o la Uil) – in quasi tutti i casi si tratta di curatori di sezioni di musei, e solo in pochissimi di direttori di (piccoli) musei (provinciali): nemmeno uno ha avuto esperienze nemmeno lontanamente comparabili alle responsabilità che si accinge ad assumere.

Con questa selezione, insomma, lo Stato italiano ha fatto una scommessa, scegliendo di affidare direzioni a persone non ritenute mature per una direzione nelle stesse istituzioni in cui finora lavoravano. È giusto, sensato, prudente scommettere contemporaneamente sui nostri venti più importanti musei? Quante possibilità ci sono che ci vada bene in tutti e venti i casi? E cosa staremmo rischiando, se andasse male?

E qui cominciano i dubbi – gravi dubbi – sulla procedura. È responsabile fondare una simile scommessa su un colloquio di quindici minuti, e sulla lettura di un curriculum?

Un elemento di comparazione: per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense Davide Gasparotto come curatore della collezione di dipinti, il Getty Museum di Los Angeles ha ritenuto necessari un’intervista skype di 2 ore, un colloquio privato col direttore di 2 ore, due visite di tre giorni durante le quali il candidato ha trascorso molto tempo col direttore e il vicedirettore, e poi un lungo colloquio col presidente dei Trustee. E in questo caso era un direttore di museo che diventava curatore di sezione: mentre noi abbiamo fatto il contrario in soli 15 minuti!

Sarebbe imbarazzante discutere i singoli nomi dei nuovi direttori: ma è impossibile non notare che nella stragrande maggioranza dei casi (prescindendo dal valore scientifico dei candidati) non c’è alcuna competenza specifica sul museo e sulle collezioni che andranno a dirigere. E se la nazionalità non è un argomento, forse la competenza dovrebbe esserlo.

Infine: la commissione non ha scelto i direttori, ma ha presentato rose di tre nomi al ministro e al direttore generale dei musei. Il primo ha scelto i direttori dei sette musei più grandi e importanti il secondo quello degli altri tredici. Domanda: è possibile leggere i nomi che componevano queste terne? Sarebbe fondamentale poterle conoscere, se vogliamo provare a capire in base a quali criteri Dario Franceschini e Ugo Soragni hanno usato un potere incredibilmente discrezionale. Un potere che, nel caso del ministro, sostanzia in modo clamoroso, e per me clamorosamente sbagliato, un’ingerenza politica diretta nella vita dei più grandi musei della nazione.

3. Vecchio e nuovo. Una finestra aperta da cui entra finalmente aria nuova. Un gesto di rottura. Un bel segnale. Un sasso nello stagno. Sono queste le metafore che hanno incarnato il giudizio di chi si è espresso a favore delle nomine: come Gian Antonio Stella sul Corriere e Francesco Bonami sulla Stampa. È un modo di pensare molto diffuso nell’Italia di oggi, e non solo a proposito dei musei: è questo l’unico vero “argomento” a favore di Matteo Renzi, e del suo governo. Sarebbe meglio qualunque scuola di questa scuola, e meglio qualunque Senato di questo Senato: e così via. Un simile modo di guardare al potere e ai suoi atti non è, tuttavia, una novità: semmai una costante nella nostra storia. Piero Calamandrei annota nel suo diario che perfino il grande filologo Giorgio Pasquali pensava e diceva: «Il fascismo sarà aria buona, sarà aria cattiva, ma insomma è aria».

Invece io non credo che gli atti di governo si possano giudicare sul piano simbolico, o metaforico. Siamo allo storytelling del governo senza il governo. Al racconto delle riforme senza le riforme. Ma la bontà di un metodo (di un gesto, di una finestra aperta, di una ventata d’aria…) va giudicata sulla base dei risultati che produce, non su quello degli effetti mediatici che suscita.

In questi giorni, tuttavia, anche molti colleghi e amici mi hanno detto che tutto quello che ho appena scritto è verissimo, ma che la situazione dei musei era così compromessa che qualunque “novità” era comunque preferibile al “vecchio“. Insomma, Franceschini avrebbe fatto bene a comportarsi, rispetto al nostro patrimonio, come l’amante descritto da una splendida canzone di Fabrizio De André: «E sarà la prima che incontri per strada / che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, /per un amore nuovo».

Io non sono d’accordo. Riconosco – e credo di averlo scritto più di tutti – le infinite, gravissime insufficienze, e perfino i veri e propri tradimenti, di molti dei funzionari delle soprintendenze a cui erano affidati quei musei. Ma credo che la strada imboccata da Franceschini aggiungerà danno a danno, stortura a stortura, errore ad errore. O davvero pensiamo che affidare la Reggia di Caserta a un esperto di marketing e il Museo Archeologico di Napoli a un funzionario comunale (per approfondimenti rinvio a questo mio articolo uscito oggi sulla cronaca napoletana di Repubblica) sia la soluzione? O anche solo che sia meglio del “vecchio2?

Quando, nella Commissione Bray per la riforma del Mibact, cominciammo a discutere dell’autonomia di alcuni grandi musei italiani, pensammo e dicemmo che l’autonomia doveva essere funzionale a rendere questi musei dei veri centri di ricerca, capaci di tornare a produrre, e quindi a redistribuire, conoscenza. Tutto questo non è avvenuto: come ammette Paolo Baratta, che sedeva in quella commissione e oggi ha presieduto quella per la scelta dei direttori. Oggi l’Archeologico di Napoli ha 6 archeologi e Capodimonte 5 storici dell’arte, Brera 4, la Galleria Estense di Modena 2 e la Galleria Borghese 3: di quali supermusei stiamo parlando? E di quale rivoluzione culturale? Qua nemmeno un direttore come Roberto Longhi potrebbe fare qualcosa di serio!

Infine, quando pensavo che i musei sarebbero potuti ritornare ad essere luoghi civici e centri di umanizzazione, avevo in mente la triste sorte degli Uffizi, asserviti alle più spietate logiche del mercato. In questi anni ho più volte scritto che l’enorme responsabilità di questa mutazione era anche da ascrivere al tradimento di chi ha governato negli ultimi decenni la Soprintendenza di Firenze: e ho deplorato il fatto che le encomiabili resistenze del direttore degli Uffizi non avessero mai trovato la forza, né peraltro avessero gli strumenti di autonomia, per emergere esplicitamente ed efficacemente.

Ebbene, la prime dichiarazioni del nuovo direttore Eike Schmidt non hanno riguardato la ricerca o l’accesso dei cittadini alla conoscenza, ma – suscitando il giusto sdegno di Jean Clair – la sua determinazione ad affittare ai privati le sale del museo per eventi commerciali e convention di imprese. Evidentemente, Franceschini ha dunque raggiunto il suo scopo: eliminare anche quell’ultimo residuo di timide resistenze alla completa mercificazione del nostro patrimonio. Ecco qual era il famoso ritardo finalmente recuperato.

Spero di sbagliarmi: magari – nonostante la loro diretta nomina ministeriale – i nuovi direttori saranno più liberi, coraggiosi e forti dei loro predecessori. Forse si getteranno in quelle battaglie che sono state disertate dai loro predecessori. Lo spero davvero. Ma per ora non riesco a vedere nessuna novità, nessuna rivoluzione culturale. Vedo solo che il lungo smantellamento del progetto della Costituzione sul nostro patrimonio culturale conosce in questi giorni un nuovo, deprimente traguardo.

*La Repubblica online, 21 agosto 2015

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