La “democratica non-libertà” permea tutto di sé [di Dario Seglie]

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Tensioni e divisioni non solo tra i gruppi storici di riferimento, i partiti, ma divaricazioni e fazioni all’interno di essi, nell’intento di scendere in lizza, sbaragliare gli avversari e conquistare, o riconquistare, o trattenere, il potere, la governance come si dice oggi per abbellire ed addolcire il detto medievale tenere il coltello dalla parte del manico.

Brandeggiare il coltello è comunque, a destra come a sinistra (per usare due categorie desuete ma chiare) l’operazione fondamentale per tracciare il solco, o la ferita, il vallo tra i pochi stakeholder (in italiano: i padroni del vapore) ed i molti cittadini, spesso considerati – come se fossimo ancora nell’epoca feudale – non citoyen, ma servi della gleba, al massimo sudditi di una reale oligarchia che non ha fondamento democratico se non l’accaparramento dei voti (non solo con il baratto (o voto di scambio), ma soprattutto con promesse e programmi di facciata e specchietti per le allodole, ballon d’essai non per innalzare la mongolfiera, ma pour épater les burgeois, per gettare fumo negli occhi). Un do ut des” (dare e avere, in partita doppia computistica, quella che insegnavano le professoresse di ragioneria subito dopo la seconda guerra mondiale, con lapis e quaderno, altro che tablet !) che è volgare mercimonio.

Decisioni e azioni di imperio che non hanno neppure l’aura del divino che incornicia il monarca, ma solo la caliginosa nigredo delle persistenti alchimie elettorali covate negli antri sotterranei profondi dei gruppi di potere. Dall’alchimia vorremmo passare finalmente alla chimica, non solo in campo scientifico e tecnico, uscire dal Medioevo, passare attraverso il Rinascimento, ed approdare al Risorgimento Democratico Contemporaneo, con esiti inclusivi veraci, soprattutto in campo elettorale, per proseguire con coerenti azioni sul territorio, cioè sulla nostra pelle di cittadini liberi ed uguali, con trasparenti, intelligenti, valide, vigorose azioni partecipate e condivise da tutta la gente, perché o siamo in democrazia reale o torniamo in un astorico ad inaccettabile feudalesimo.

Governare una città, un territorio, uno stato, non significa, e non deve mai più significare, pensare di essere l’ unto del signore ed agire nel chiuso del palazzo, con il ponte levatoio sempre alzato per evitare che la plebaglia possa sapere, possa dar noia ai sedicenti rappresentanti del popolo! Ma dopo il feudalesimo e l’assolutismo ci fu la presa della Bastiglia e su tutti i municipi di Francia, sulla facciata, è ancora oggi scritto a caratteri cubitali Liberté, Egalité, Fraternité. Non sarebbe di troppo e tanto meno sconveniente se sulla facciata dei Municipi d’Italia ci fosse, almeno idealmente, scolpito l’illuministico trinomio rivoluzionario.

Citando un grande maître à penser, Herbert Marcuse (ed in particolare L’uomo a una dimensione, 1964) il padre nobile dei moti rivoluzionari giovanili del ‘968, iniziati nei campus statunitensi e quindi approdati in Europa, dice che nelle moderne democrazie occidentali i valori, che una volta erano propri di una parte della società (la classe borghese), si sono diffusi a tutti gli altri soggetti sociali. Ma è proprio a questo punto del processo democratico che si innesca il meccanismo repressivo: l’azione totalizzante dell’esistenza da parte dei potentati, di fatto, impedisce una scelta che sia veramente libera; si genera un diffuso conformismo che produce l’uomo unidimensionale.

E’ una parte della società che condiziona i veri bisogni umani, sostituendoli con altri artificiali, è il consumismo per il mercato divoratore, dove tutto ha un prezzo e nulla ha un valore; questa caduta etica, questo nuovo classismo polarizzato che raggruppa la ricchezza ed il potere in ristretti ambiti, apre le porte a forme estreme di mercificazione includenti la corruzione e l’intollerabile diseguaglianza tra i pochi ricchissimi ed i tanti poverissimi.

Questa democratica non-libertà permea tutto di sé, niente le sfugge, neanche gli strati tradizionalmente anti-sistema come la classe operaia, che si è ormai pienamente integrata nel sistema stesso; segnale eloquente che non siamo ancora usciti dalla “democrazia bloccata”, dallo stato di ipnosi sociale che ci vede remissivi piuttosto che propositivi, assertivi, attivi per cambiare una società opprimente ed ingiusta.

Ed allora chi? C’è una nuova classe emergente che sta guadagnando rapidamente la ribalta se non ancora il potere: gli Indignati. Indignarsi è una forza prodigiosa, a costo zero, in grado di farci uscire dalla palude Stigia del presente, dove l’unico che gode è Caron Dimonio ed i suoi Satanassi.

Immaginazione al potere divenne una delle parole d’ordine dei giovani del sessantotto, ai quali Marcuse guardò come veicolo attraverso il quale si poteva realizzare la liberazione, insieme a tutti i soggetti non integrati in esso; ma la rivoluzione generazionale prese altre vie e non sortì gli effetti sperati per migliorare l’umanità.

Chi sono oggi i non integrati? Tutti coloro che si riconoscono e dialogano nei centri della Società Civile; tutti coloro che vengono tenuti lontani, esclusi, anche con tracotanza, confinati in commissioni e gruppi di lavoro che esistono spesso solo sulla carta, coinvolti in riunioni dove l’informazione circola solo unilateralmente, senza confronto dialettico, chiudendo la gente nell’anonimato impotente della massa disinformata dei cittadini, sempre più narcotizzati ed emarginati. Tutta gente, la maggioranza silenziosa, che vuole e può e deve diventare maggioranza democratica, nel senso pieno che Pericle, ad Atene, nel 5° secolo avanti Cristo le aveva dato.

Solo gli Indignati della Società Civile possono cambiare la situazione che si perpetua da troppo tempo, a livello locale come a livelli più ampi, metropolitano, nazionale, internazionale.

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