Scavi archeologici ed escavatori [di Sergio Vacca e Maria Raimonda Usai]

 

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Per molte settimane l’argomento ha appassionato l’opinione pubblica, diviso gli scienziati ed ha titolato le prime pagine dei quotidiani e le videate d’apertura dei telegiornali regionali. Dobbiamo premettere che non abbiamo una preclusione ideologica per l’uso di strumenti meccanici per i movimenti delle terre anche nella ricerca archeologica. Il problema, in realtà, è quello di avere la consapevolezza di che cosa si vada a movimentare. Quella che fino a non molti anni fa è sempre stata sottovalutata è la natura dei materiali terrosi che vengono movimentati.

Diciamo “fino a non molti anni fa”, perché il problema è stato posto nella ricerca archeologica a livello internazionale e in molti casi affrontato con il contributo di numerose discipline afferenti alle Scienze della Terra, oltreché di discipline di base quali la Chimica, la Fisica e via elencando. In molti paesi europei (cosi come nelle due Americhe, in Asia e Australia), si è ormai spesso raggiunta la realizzazione di equipe multidisciplinari di studio a partire dalla pianificazione, alla progettazione ed alla realizzazione delle ricerche archeologiche, ove sono presenti, oltre alla figura dell’archeologo tradizionale – spesso di estrazione umanistica – figure professionali come i pedologi, sedimentologi, i paleontologi. Negli ultimi 10 e, in certi casi perfino 20 anni, si è ricorso in alcuni casi anche in Italia, sebbene in modo non organico, ad alcune di queste discipline, prevalentemente archeobotanica, palinologia e osteologia, per talune analisi di settore.

Il problema, tuttavia, non è quello di ricomprendere questa o quella specializzazione nella fase di scavo o di analisi dei reperti. Il problema reale è, invece, quello di definire la natura, destinazione, uso e significato archeologico dello stesso materiale sedimentario che ricopre antiche strutture o manufatti. La risposta viene da una disciplina, la Pedologia, che si occupa di studiare il suolo, la sua genesi, le sue caratteristiche e la distribuzione areale nel pianeta. Quel materiale che si è sedimentato sulle antiche strutture è suolo.

Rimandando per gli approfondimenti ai manuali della disciplina, alcuni dei quali pregevoli ed aggiornati anche in lingua italiana, è tuttavia il caso di evidenziare che qualsiasi materiale, sia che abbia consistenza lapidea o presenti tessiture (contenuto percentuale delle tre frazioni granulometriche: sabbia, limo e argilla) di consistenza soffice, che sia estruso dalle profondità della Terra (es. magmi vulcanici) o sia stato rimaneggiato in superficie a seguito di fenomeni di erosione e sedimentazione, è immediatamente assoggettato a processi di formazione del suolo (p. pedogenetici) da parte dei cosiddetti “fattori della pedogenesi”: Clima, Litologia, Morfologia, Organismi viventi (vegetali, animali e uomo),Tempo. Tra i fattori che influiscono sulla genesi ed evoluzione dei suoli, c’è quindi anche l’uomo.

La formazione e lo sviluppo di un suolo richiede tempi generalmente molto lunghi, normalmente, migliaia d’anni. Ma anche solo dopo qualche decennio possono cominciare ad osservarsi gli esiti dei processi di formazione, come ad esempio la orizzontazione, ossia la formazione di quegli strati più o meno paralleli alla superficie, detti orizzonti, che rivestono una importanza fondamentale nella caratterizzazione del suolo. Si tratterà all’inizio di protorizzonti e perciò di un protosuolo, di pochi millimetri o centimetri di spessore. Ma come tale va riconosciuto e studiato. Anche se generato su sedimenti rimaneggiati pochi decenni prima.

Alcuni gli aspetti fondamentali da evidenziare. Il primo riguarda la complessità del suolo e la varietà delle funzioni che esso esercita: non solo quella di sostenere la vita delle piante ma, essendo un formidabile trasformatore di energia in cui compiono il loro ciclo biologico miriadi di organismi, è la “discarica” naturale dei residui animali e vegetali, il loro trasformatore, filtro di sostanze tossiche ed infine il magazzino fondamentale degli elementi nutritivi. Il suolo è quindi un vero e proprio ecosistema. Ma è inoltre la memoria storica degli eventi che si sono verificati nel tempo: registra e mantiene in memoria, con i propri processi evolutivi tutte le informazioni relative a quanto può essersi verificato nel passato, in certi casi anche molte migliaia di anni prima delle attuali osservazioni. Ecco perché è necessario studiarlo. Con le metodologie proprie delle discipline che afferiscono alla Scienza del Suolo.

Nel mese di giugno, organizzato dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Sassari, si è tenuto ad Alghero il Congresso Developing International Geoarchaeology 2015, appuntamento annuale tra gli scienziati geo-archeologi; convegno nel corso del quale, oltre a presentare i casi studio più aggiornati nei rispettivi campi di ricerca, è stato l’occasione per mettere a punto e verificare in una sessione di intercalibrazione alcune tra le più innovative metodiche di analisi dei suoli archeologici. Ossia quei particolari tipi di suoli, i suoli antropogenici, condizionati dall’uomo o contenenti suoi manufatti (categorie queste da distinguere dai suoli naturaliformi, che sottostanno ad una vegetazione e che non hanno subito significativi interventi da parte dell’uomo) tra i quali possono appunto annoverarsi i suoli archeologici.

Tra i metodi di studio, è stata data particolare enfasi alla micromorfologia, che permette di investigare a livello microscopico gli effetti dei processi di formazioni del suolo; ad esempio, i movimenti della sostanza organica o dell’argilla nel profilo (sezione verticale di suolo dalla superficie fino al suo limite inferiore, che può variare da pochi decimetri a qualche metro).

Che tipo di risposte può dare l’applicazione della ricerca pedologica alla ricerca archeologica: ad esempio:

a) valutare attraverso le sezioni sottili l’alterazione delle argille indotta dal calore di combustioni archeologiche;

b) valutare il significato della formazione di noduli di ferro-manganese in corrispondenza di reperti attribuiti ad una data età; (c) ricostruzione di paleo lavorazioni del suolo come l’uso del fuoco; (d) valutare la dinamica spazio-temporale della sostanza organica, particolarmente nei siti funerari.

E via elencando. Le risposte che vengono dallo studio dei suoli antropogenici-archeologici forniscono, unitamente ad altre indagini, come ad esempio quelle palinologiche, entomologiche, archeobotaniche e osteologiche, preziose informazioni sui paleo-ambienti, ma soprattutto sulla loro evoluzione.

Considerare perciò i materiali terrosi che abbiano ricoperto antiche strutture, inglobandone manufatti o antiche sepolture, come materiali inerti e non come parti essenziali di un ecosistema che sia evoluto nel tempo e, sempre nel tempo, abbia subito trasformazioni per l’azione di processi di addizione o sottrazione di materiali, di trasformazione dei minerali primari originariamente presenti, di perdite secondo la verticale o lateralmente, determina la perdita di una quantità ingente di informazioni. Informazioni preziose – come si diceva prima – per la ricostruzione dei paleo-ambienti, ma anche per comprendere le modificazioni che possono essere intervenute nei manufatti e per avere anche informazioni sulla conservazione delle strutture.

La messa in luce di strutture murarie, ad esempio, può talvolta accelerare processi di degrado che possono essere stati meno attivi sotto copertura; conoscere la natura dei processi che hanno interessato le strutture all’interno del suolo è molto importante per poter affacciare ipotesi di innesco o evoluzione del degrado nelle condizioni climatiche attuali.

Ecco perché è assolutamente indispensabile modificare il paradigma della ricerca archeologica quando questa si svolge in presenza di suoli, ovvero nella quasi totalità dei casi: in tali circostanze lo scavo, sebbene debba essere sempre condotto da una figura centrale di direttore archeologico, necessita, fin dagli stadi iniziali di pianificazione e programmazione, l’affiancamento di figure quali i geo/pedo-archeologi, che possiedono gli strumenti culturali adeguati per lo studio di un suolo antropogenico-archeologico.

A differenza dalle analisi di laboratorio di tipo archeobotanico, osteologico, chimico, paleontologico, che possono venire svolte efficacemente su materiali sciolti dopo che essi sono stati asportati dal terreno, le analisi pedologiche devono essere necessariamente svolte sui materiali in situ, perché le metodologie sulle quali si basano le indagini pedologiche comprendono prima di tutto la fase di campagna ed il campionamento rappresenta il momento più qualificante e delicato di tale indagine, a cui seguono – in quanto strettamente connesse – le fasi analitiche multidisciplinari.

In altre parole, lo scavo deve essere sempre condotto tenendo in considerazione i dettami della Scienza del Suolo; questa va sempre maggiormente affinando le metodiche analitiche dei suoli comunque condizionati dall’uomo, tra i quali i suoli archeologici, per poter verificare, con la maggiore attendibilità possibile, se al loro interno siano contenute tracce della presenza dell’uomo in relazione a uno o più periodi.

Utilizzare o meno un escavatore non sarà più un problema se si saprà che cosa si stia movimentando. Altrimenti il dubbio, che con l’uso di tali mezzi si perdano preziosissime informazioni, rimane.

* Sergio Vacca è stato professore di Scienza del Suolo nell’Università di Sassari, Dipartimento di Architettura e Urbanistica
** Maria Raimonda Usai è ricercatore T.D. di Pedologia applicata alle Scienze Archeologiche dell’Università di Sassari, Dipartimento di Architettura e Urbanistica e Ricercatore di Geo-archeologia dell’Università di York (UK)

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