L’esclusivismo etnico e la storia che ci sorpassa [di Nicolò Migheli]
“Il faut réfléchir comment l’histoire nous dépasse“. Lo scriveva un mio amico sulla sua bacheca di Fb raccontando lo sconcerto di una funzionaria greca della Commissione Europea davanti alla tragedia dei rifugiati-migranti. Centinaia di migliaia di persone che premono alle nostre frontiere. La fotografia del bambino curdo in una spiaggia turca commuove il continente e costringe frau Merkel ad aprire le frontiere tedesche ai rifugiati siriani. Qualsiasi interpretazione si voglia dare, quel gesto politico cambia l’Europa e ne mostra il limite. Eravamo rimasti alla divisione Nord Sud sull’economia, ed ora ci ritroviamo anche con quella Ovest Est sui valori. La vecchia e nuova Europa, come ai tempi della guerra contro Saddam Hussein. Da una parte la Germania, Austria, Svezia, Francia, Italia, Spagna e Grecia e dall’altra Polonia, Cechia, Slovacchia ed Ungheria che chiudono le frontiere, dichiarano che non accoglieranno nessuno. In Polonia si manifesta nelle piazze contro l’accoglienza. L’Ungheria accusata di pratiche neonaziste per il muro al confine, i treni blindati, i campi di concentramento, l’uso dei reparti anti sommossa, i lanci di panini e bottiglie d’acqua sugli stranieri chiusi in gabbia. Un’apocalisse della nostra umanità. Quei paesi sono entrati frettolosamente nella Ue senza avere riflettuto seriamente sulla loro storia. Vittime degli espansionismi tedeschi e russi degli ultimi due secoli, ora sono diventati gelosi della loro etnicità esclusiva. Si sentono difensori di una identità omologante, incapaci di dialogare con il diverso. L’Ungheria in più distribuisce passaporti agli ungheresi cittadini dei paesi limitrofi, nel sogno di poter rimettere in discussione i confini stabiliti alla fine della Prima Guerra Mondiale. Il Governo di Orbán si erge a difensore della civiltà cristiana immaginaria. Un’apocalisse come rivelazione della realtà che tocca noi sardi nel profondo. Occorrerebbe riflettere per l’irruzione della Storia e del mutamento in noi e nei nostri parametri di giudizio. Occorrerebbe riflettere come i soliti cinici per calcoli di bottega politica usino questi drammi per instillare paure, mettendo contro bisogni legittimi della povertà dei locali e il dovere umano di aiutare chi fugge dalla morte. Perché anche da noi si notano segni pesanti di rifiuto della realtà. Nascono movimenti che usano la retorica identitaria per marcare confini. Un’identità che si immagina ferma ed immutabile, il sogno di un comunitarismo cerchio caldo, per usare la brillante definizione di Göran Rosemberg. Una concezione dell’identità simile a quella dei teorici waabiti dell’Isis. Saremo salvi se non ci saranno contaminazioni, se tutti si riconosceranno come i-dentici. Perché ciò avvenga è necessario costruirsi sempre è comunque come vittime – il collettivo Wu Ming, ha scritto un articolo illuminante a proposito- di un presente che non si riesce a capire e di un passato raccontato sempre con il mito della perdita. Perché l’oggi, grazie a Tv e reti sociali, induce un tempo schiacciato sul presente, una rimozione della memoria che impedisce ogni elaborazione che sia riflessione, che sia razionalità e non semplice razionalizzazione. Ad esempio, ogni fatto terroristico viene sottolineato con un “Da oggi siamo in guerra”. Il conflitto permanente come instrumentum regni. Ogni sbarco vissuto come invasione. Una forma sofisticata di controllo sociale che comincia con l’essere sottoposti continuamente a narrazioni manipolate, ad una incessante riproposizione di video e messaggi violenti che oltre a indurre assuefazione abbassano pericolosamente il confine della percezione dell’orrore, fino ad essere il rumore di fondo della nostra psiche. L’indignazione come corollario, il sentimentalismo e non il sentimento. Le passioni fredde che uccidono l’empatia. Tv e reti sociali il luogo eletto per un continuo lavaggio del cervello che si traduce in senso comune di ostilità nei confronti di chi è diverso, povero, fugge. Un bisogno di ordine che somiglia molto al ritorno nel grembo materno. La sindrome del ritiro, la chiama così lo psicanalista Luigi Zoia. Una realtà che mi preoccupa molto come sardo; come la nostra nazione ad identità debole si lascia traviare in una deriva etnica esclusiva, che immagini l’appartenenza solo legata a sangue e terra, con il corollario della folklorizzazione incessante. Questo governo regionale, bloccando ogni intervento per la crescita del sardo come lingua normale, ha creato uno degli elementi che accentuano l’identità labile dei sardi. Le azioni di governo che non difendono la nostra terra dal Land Grabbing, sono ulteriori fatti che inducono il senso della perdita. Su quello i teorici dello scontento potranno costruire il rifiuto dell’altro indicato come causa di tutti i mali. Da quella rabbia il nostro inconscio collettivo potrà produrre il mostro. L’Orbán in vellutino aspetta solo l’occasione giusta per manifestarsi. Occorre riflettere su come la Storia ci sorpassi. Non siamo riusciti a prevederla, ma almeno cerchiamo di fare in modo che non ci travolga e ci muti in peggio per sempre. |
Gran bell’articolo, intelligente e dotto oltre che profondamente umano. Grazie Nicolò per averlo scritto.
Compare Deddegu
Tutto accade troppo tardi, chi non lo vede? La coscienza dell’Europa davanti alle migrazioni che la penetrano, o di una sua parte, e attraverso che contraddizioni ancora. Anche l’articolo di Nicolò Migheli arriva tardi… Ma è il primo che proviene da quel mondo, è così sincero e così sinceramente autocritico, che il riferimento alle colpe altrui, il Land Grabbing, etc., sembra un inciampo nel ragionamento, forse un riflesso condizionato.
Tutte le versioni dell’indipendentismo, del sovranismo, del sardismo, sembrano così fuori tempo in queste settimane. I nazionalismi che rialzano la testa in Europa come vede bene Migheli hanno un inquietante profilo, salvo forse che in Scozia. Ma tutti sembrano ideologie obsolete, con le quali ora è pericoloso baloccarsi, alla vigilia di uno sconvolgimento delle nostre società dove il peggio può venire dal confronto di identità, le nostre e le loro.
Si vedeva da lontano che la moltiplicazione dei movimenti indipendentisti e sovranisti coincideva in Sardegna e anzi era inversamente proporzionale alla presa reale di quella prospettiva sulla società sarda. Secolarizzata e smagata e subalterna a modelli culturali e sottoculturali prodotti altrove, e che mentre distrugge ogni tratto di autonomia propria anche personale e comunitaria (le case, la lingua…) e non produce nemmeno più beni per il proprio autoconsumo, si ubriaca di retorica, di folclore, costumi sardi a processioni dal Redentore a piazza San Pietro (gli insegnanti dal Papa), all’Expo dove molti sardi si sono vergognati di essere rappresentati così, e io con loro.
Poca e nessuna autonomia e figurarsi indipendentismo, ma il petto gonfio di aria, ogni segno identitario volgarizzato e pompato con un autocompiacimento che fa tristezza e non credo si ricordi a questi livelli di pervasività nei 50 anni passati. ( Che ci fa l’assessore Morandi nelle foto sui giornali affiancato a donne in costume e maschere di carnevale fuori contesto? Che sorriso si mette in faccia, perché?)
Scusate lo sfogo. E’ anche perché non si sta meglio a sinistra. E’ una democristiana tedesca la leader più coraggiosa di questa fase, dopo il Papa cattolico. Tutte le altre posizioni, le cautele, le chiacchiere di Renzi, saranno spazzate via, sono già state spazzate via, e le velleità alla Syriza, ahimé, e speriamo non anche Corbin.
Anche per cambiare questa esausta società sarda, le stanche società europee, ben vengano i barbari, si potrebbe dire con il poeta.
L’Orbán in vellutino …è già un Mito !
Come non condividere i concetti di ‘identità esclusiva’ e di ‘identità omologante’, a partire dai quali mi sono permesso di criticare, in passato, alcune versioni dei vari nazionalismi regionali, incluso quello sardo. L’identità ‘ferma e immutabile’ è un costrutto tipico di quei movimenti sociali politici – che non a caso proliferano in corrispondenza dei grandi momenti di crisi economiche e di valori – che ricercano un alibi per rovesciare un ordine costituito. Il concetto di identità, allora, di essere i-dentici appunto, assume la connotazione di arma nelle mani di coloro che aspirano alla ‘rivoluzione’, un’arma consapevole da parte delle élite che la governano. E i social media – ma anche i media tradizionali come la televisione – diventano le ‘munizioni’ con cui queste armi vengono utilizzate, spesso usando l’indignazione appunto, il sentimentalismo, come strumento di una manipolazione delle coscienze che ha la sua più grande responsabilità nella consapevolezza dei rischi e della portata della strategia da parte di chi la pratica. E varie forme di nazionalismo, il più delle volte, ritornano come modalità pseudo-salvifiche di una civiltà ormai in decadenza.
Anche la Sardegna, purtroppo, non appare immune a una simile deriva, in cui la narrazione principale (in senso nazionalistico anch’essa) sembra aver contagiato molti, anche quelli più moderati e meno intransigenti. In questo caso, inoltre, il mancato riconoscimento di alcuni elementi identitari – come la lingua ad esempio – da parte delle autorità locali e nazionali, unito a una situazione economica sempre più drammatica, hanno generato poco a poco rivendicazioni di ‘esclusivismo etnico’ (un senso di identità legato a ‘sangue e terra’ come dice giustamente Migheli) sempre più preoccupanti. Questo non solo perché generano come conseguenza un aumento degli episodi di intolleranza a danno dei più deboli, ma soprattutto perché fanno di una cultura naturalmente e profondamente radicata nel senso della pace sociale, del rispetto e della solidarietà umana – come è quella sarda – una possibile appendice di quella deriva socio-culturale appunto.
di Dafni Ruscetta