Statistica, lucciole, lanterne e lo strano caso del pecorino scomparso [di Giuseppe Pulina]
A tutti gli studenti di scienze naturali, economiche e sociali del mondo, dalla CALTECH alla UNICA, è nota una battuta (un po’ sconcia) sentita al corso di statistica: √shit=shit, che tradotto in italiano suona più o meno come “elaborazioni sofisticate di dati del cavolo danno risultati del piffero”. Purtroppo l’atteggiamento comune degli italiani (a cui non sfuggono i sardi) nei confronti delle statistiche è segnato dalla cattiva fama che queste importanti elaborazioni godono a causa del diffuso convincimento, nei meno raffinati, che Trilussa avesse ragione (se un nostro commensale mangia un intero pollo e siamo in due a tavola, allora abbiamo mangiato in media mezzo pollo a testa) e del danno apportato, ai più raffinati, dalla nota dichiarazione di Disraeli (citato da Twain) “there are lies, damned lies, and statistics”. La statistica, come diceva il compianto Aldo Cappio-Borlino, è come una anziana signora inglese, educata e gentile, che risponde sempre alle vostre domande. Se però le fornite dati sbagliati (o formulate domande errate) lei vi risponderà sempre cortesemente, ma il responso sarà invariabilmente sbagliato. Inoltre, la statistica non vi dà mai una sola risposta, ma minimo due: nel caso del pollo di Trilussa, ad esempio, la vecchia signora ci avrebbe risposto che, sì è vero che in media abbiamo mangiato mezzo pollo a testa, ma che questa stima è corretta in un intervallo di più o meno mezzo pollo! Le statistiche, cioè, viaggiano sempre accoppiate: alle misure di posizione (alla media, ad esempio) deve sempre essere accompagnata una misura della loro variabilità (l’errore standard, nel caso della media) su cui basare la fiducia che riponiamo in esse. Le statistiche che noi leggiamo continuamente sulla stampa e che riempono i blog e i programmi politici, sono perciò argomento delicato. Chi ha raccolto i dati? Con quale accuratezza? Che tipo di elaborazione è stata fatta? Poche domande per capire che quando troviamo un risultato statistico, lo riportiamo e lo commentiamo, difficilmente siamo in grado di risalire alla fonte e alla robustezza dello stesso. E’ noto che l’ISTAT è il nostro riferimento nazionale (e l’Eurostat è quello europeo), ma a volte si ha il sospetto che queste istituzioni, che non dimentichiamolo costituiscono una importantissima risorsa per le politiche in tutti i campi, impieghino elaborazioni sofisticate per mascherare la povertà dei dati raccolti. Capita, eziandio, che chi si occupa di agricoltura in Sardegna abbia enormi difficoltà a trovare dati elementari aggregati in statistiche, anche nei campi in cui la loro raccolta dovrebbe essere facile. Qualche giorno fa ho scritto su questo sito, di produzioni e valore del sistema agropastorale sardo e i dati che ho riportato sono scaturiti dall’elaborazione di informazioni di base che non compaiono nelle statistiche ufficiali. Questo comporta che le variabili quantitative che ho utilizzato le ho riempite di dati che derivano da fonti diverse, tutte autorevoli, ma che il risultato che ho ottenuto dovrebbe, come Newton “lu colciu” ci insegna, essere sottoposto a collaudo (cioè confrontato con i dati raccolti in campo). La domanda a cui ho cercato di dare risposta è in realtà facile (in quanto interessante il maggior settore agricolo sardo): quanto formaggio di pecora si produce in Sardegna? Se la rivolgiamo al famoso (statisticamente parlando) “uomo della strada (o donna, nel 50% dei casi)”, ci risponderà che non ne ha idea, ma che basterebbe chiederlo ai circa 40 caseifici sparsi nell’Isola per saperlo con precisione. Ecco, è proprio quello che non si fa. E quanta carne produciamo? E di che tipo? E pesce? Semplicissimo, risponderebbe sempre il nostro interlocutore medio: si va nei mattatoi e si chiedono i dati, nel primo caso; oppure ci si rivolge alle cooperative di pesca o agli altri imprenditori ittici, nel secondo caso. Sbagliato: nessuno lo fa. E pomodori? E grano? Boh. In mancanza di dati, beh, facciamo una bella stima. Alla faccia di Galileo e dell’ipse dixit (riferito ad Aristolete, lu colciu, naturalmente). Se poniamo una resa alla trasformazione di 7 litri per 1 kg di formaggio (dato assolutamente prudenziale, la cooperativa di Ittiri, per esempio, dichiara 5,5 litri per kg di formaggio) otteniamo 60 milioni di kg di prodotto. Anche a volere essere generosi ciò significa che le nostre DOP assorbono al massimo il 50% del latte prodotto, con la conseguenza che la tanto agognata diversificazione produttiva è diventata una realtà, anche se sconosciuta ai più. Badate bene, ho svolto il ragionamento sulla base di dati di base “robusti”, ma nessuna ha idea dove sia finito (e se realmente esiste) il “pecorino scomparso”. Sarebbe così semplice raccogliere i dati (magari affidando il compito all’agenzia Laore) invece che continuare a basarsi su stime, per quanto autorevoli: avemmo una indiscutibile realtà su cui impostare le nostre politiche agricole e agroindustriali invece che lucciole, lanterne o, pur autorevoli, flatus vocis. Ps: provate a trovare su ISTAT la produzione di pecorino della Sardegna. |