C’è qualcuno che ha paura dell’indipendentismo? [di Bustianu Cumpostu]
Dal contesto degli interventi sulla presunta crisi dell’indipendentismo sardo ho avuto la seria impressione che alcuni pesci che non sono riusciti a nuotare nell’acqua che hanno trovato, invece che evolversi e adattarsi cerchino di adattare l’acqua alle loro peculiarità e alla loro forte autostima. Tutti i disvalori che l’indipendentismo ha combattuto gli vengono addebitati, il folclorismo, l’identità ferma e immutabile e addirittura simile a quella dei teorici waabiti dell’Isis, la deriva etnica esclusiva, il vellutino, le ideologie obsolete e pericolose, la retorica, il personalismo, l’egoismo, il minoritarismo, l’arroccamento ideologico, le scelte pragmatiche deleterie, il parlarsi addosso. Le loro griglie di analisi utilizzano, categorie, concetti e persino il vocabolario del dominante per leggere la realtà del dominato. E’ così che il nazionalismo della nazione oppressa, che nasce dal volere un mondo costruito sull’interrelazione delle nazioni libere, diventa un disvalore perché costretto nel nazionalismo degli stati-nazione, dominanti ed impeditori delle nazioni senza stato. E’ in quelle stesse griglie che il sardismo non ha più l’accezione, datagli da Simon Mossa, di valore universale di liberazione collettiva ma viene forzatamente associato ad un’espressione partitica che si è prestata alla usucapione da parte dei partiti italiani lasciandosi aggiungere agli ismi di una cultura politica estranea e imposta. Si ripropone, per l’indipendentismo, il vecchio schema del doversi schierare a destra o a sinistra come se una nazione oppressa si possa liberare parzialmente e come se il diritto alla liberazione sia riconosciuto in base alla fede politica e non a tutto il popolo che subisce la sudditanza e vuole esercitare il diritto di liberarsene. Si criticano le narrazioni manipolate ma le si pratica associando l’accezione di crisi o morte all’indipendentismo e contando sul fatto che altri argomenteranno nel merito ma non modificheranno la manipolazione iniziale, che rimarrà e caratterizzerà la dimensione indipendentista. A questo punto è doveroso chiedersi se per alcuni degli interlocutori la presunta crisi dell’indipendentismo sia una valutazione o una inconfessabile speranza. Sono un indipendentista, sono un nazionalista, sono sardista, non sono sovranista, sarò di sinistra. Sono indipendentista e sono uno strumento militante che lotta per dare uno stato indipendente alla mia natzione oggi oppressa. Sono nazionalista perché credo in un mondo basato sulla interrelazione tra nazioni libere e non tra stati imperialisti. Sono sardista perché, come diceva A. Simon Mossa in un discorso del 1969 a Strasburgo parlando delle nazioni senza stato “Se anch’essi avvertono questo anelito di libertà che noi chiamiamo Sardismo vuol dire che il Sardismo è idealità universale e non fatto e fenomeno provinciale come i proconsoli e i servitori del potere statuale si compiacciono di affermare”. Non sono sovranista perché sovranismo è solo un nickname del fallimentare autonomismo collaborazionista. Sarò di sinistra quando la mia natzione sarà libera e indipendente e avrà la possibilità di avere un suo universo politico completo, normale, democratico e non drogato dalla sudditanza e dalla premialità che essa offre ai suoi collaboratori. Questo indipendentismo, che è una evoluzione dell’anticolonialismo degli anni 70, ha portato a qualcosa? A qualche risultato che si può misurare? Se usiamo un misuratore endogeno è facile affermare che i risultati sono andati oltre l’aspettato e lo sperato; in nessuna fase della sua storia i sardi hanno avuto la consapevolezza di essere un insieme nazionale, unico, disgiunto e normale che ha diritto ad esprimere una propria soggettività statuale e che questo diritto è temporaneamente impedito dall’ultimo dominatore della sua storia. Consapevolezza che i sardi palesano in ogni momento, con la bandiera natzionale, in un concerto, dal Papa, nella barca che sfida l’oceano, dopo una vittoria sportiva, nell’asciugamano e nelle infradito da spiaggia, parlando, vestendo, ballando, manifestando in sardo. Queste sono le forme pacifiche e di massa, di lotta di liberazione nazionale, altro che ostentazioni da sottoporre a psicologo. Il popolo sardo ha inventato una forma di lotta di massa che tutti ci invidiano, che tutti notano e sanno leggere anche se alcuni nostri intellettuali non si ritrovano le categorie per metabolizzarne il messaggio. Se usiamo un misuratore esogeno, per esempio un sistema elettorale atto al contenimento delle sintesi politiche endogene, allora i risultati sono quelli aspettati, non si può bere un bicchiere d’acqua se qualcuno ti tiene a terra con il piede sul collo. Alle ultime elezioni regionali anche quel misuratore poteva dare risultati ma la nostra, intesa come ambito della cultura politica sarda, incapacità unita alla premialità offerta dal sistema politico di sudditanza non solo ha impedito la formazione di un sistema politico natzionale credibile e delegabile ma ridato fiato al collaborazionismo. Si ha l’impressione; che si voglia vivere nel grande inganno, nel pensare che la storia del nostro popolo si debba cristallizzare, che l’italianità non sia contingente come le precedenti dominazioni, che la Sardegna abbia dei problemi non dei diritti, sia discriminata all’interno di un contesto e non sia essa un contesto, un contesto impedito dall’esterno; che si voglia aggiungere qualcosa su una lavagna già scritta da altri invece che scriverne una propria. Non si vuole capire che la Sardegna è un contesto all’interno del quale due culture politiche si scontrano, una esogena ed una endogena, che curano interessi inconciliabili perché figlie di due entità collettive disgiunte in cui una, la prima, cerca di uccidere e fagocitare l’altra. Da una parte uno stato, lo stato italiano, dall’altra una collettività in sudditanza, la natzione sarda. Lo scontro è una dinamica extranazionale tra due entità formate da individui diversamente organizzati e con potenzialità di azione e reazione basati da fattori estremamente diversi e in netta disparità. Mentre lo stato basa la sua forza sull’esercito, sulla polizia, sulle istituzioni, sulle leggi, sui mezzi d’informazione, su sindacati e partiti italiani, sugli accordi interstatali ed anche sulla Borghesia Notarile Sarda comporada, la nazione dominata può contare quasi unicamente sulla forza del suo popolo, di tutta la sua gente. Siamo arrivati al dunque. La nostra forza siamo noi, la nostra gente, chiunque proponga progetti che inducono in essa divisioni, ideologiche, di classe o sociali indebolisce la natzione e alimenta la sudditanza. E’ necessario dare corpo a quella che Angelo Caria ha chiamato la Casa Comune dei Sardi dove far alloggiare il partito che non c’è’. “…. una grande base sociale che attende di scendere in campo. Essa é formata da tutti quei Sardi che aspettano il partito che non c’é. Un partito che non c’é ma pure è vivo in tutte le vicende sarde. Un partito al quale si rivolgono, per esorcizzarlo, ogni giorno i partiti italiani. Questi lo carezzano, lo imboniscono, lo adescano perché non scenda in campo. Si tratta di superare inutili steccati per ricostruire l’unità del nostro popolo che il colonialismo ha disgregato.” Questo, che è il mio progetto ed è il progetto di tutta Sardigna Natzione Indipendentzia. Con soddisfazione prendo atto che nei precedenti interventi si sono avanzate proposte simili e che ci sono grandi spazi di condivisione. La Casa Comune può essere uno spazio di condivisione sufficiente, aperta a tutta la gente sarda che vuole fare sistema e chiedere la delega ai sardi per togliere il governo della Sardegna agli intermediatori del disastro, un sistema disgiunto da quello della borghesia notarile (Merler), democratico ma in netto e inesorabile scontro con esso. Si discuta sul nome, sulla forma, se collettiva, se federale, se fluida, l’importante che sia a colori, tanti colori ma un’unica tavolozza con la quale disegnare il futuro libero del nostro popolo. Non credo nel partito unico dell’indipendentismo e neanche nella organizzazione-leader se per essa si intende partito egemone. Unidade Indipendentista, La Carta di Convergenza Indipendentista, Fronte Unidu hanno fallito per ristrettezza d’ambito. In quanto ai vecchi leoni che devono fare un passo indietro, sposo pienamente quanto detto da Devias “non esistono le investiture a leader” ed è solo un comodo coperchio per le pentole dell’insufficienza. Ho sempre immaginato il cammino verso l’indipendenza, come una scala, con dei gradini in discontinuità tra di loro ma nella continuità della scala. I vecchi leoni che non si sono accomodati negli aggi della premialità sapranno aiutare e non impedire chi vuole passare al gradino successivo e non a quello precedente. Per ultimo e per chiudere, qualcosa sul “rischio di essere sorpassati dalla storia”, e sul “saremo salvi se non ci saranno contaminazioni, se tutti si riconosceranno come identici”. Se questo rischio c’è è tutto nell’ambito colonizzato del popolo sardo non certo nell’indipendentismo. L’indipendentismo sa che il proprio popolo è costruito sulle contaminazioni. I popolo sardo ha saputo fare tesoro delle contaminazioni subite è stato resiliente e in qualche caso anche antifragile (concetto di Nassim Nicholas Taleb) perché non solo ha saputo riassumere la sua forma ma in molti casi ne è uscito migliorato. La Sardegna ha la cultura per accogliere chi la sceglierà dopo aver dovuto abbandonare la propria terra in disastro, sa che essi sono vittime dello stesso imperialismo che mantiene i sardi in sudditanza, sarà resiliente e forse anche antifragile come per i rumeni pastori che stanno permettendo al sistema agropastorale di vincere la sfida del formaggio anche contro i giganti del settore. |