Abbiamo dovuto lasciare la Siria perché i miei bambini potessero avere una vita [di Christopher Tidey]

siriane

Da UNICEF. Org del 15 settembre 2015. Sono tante le storie del centro di accoglienza per rifugiati e migranti di Gevgelija, nell’ex Repubblica Iugoslava di Macedonia. Ogni ragazza e ragazzo, ogni uomo e donna che passa da questo posto ne ha una da raccontare. Sono storie di guerra e di sofferenze. Di scuole e di case bombardate. Storie con molti delinquenti e ben pochi eroi.

Il filo conduttore di ogni storia, però, è quello dell’alba di una nuova realtà in cui le amate case, le comunità, gli amici e anche i membri della famiglia non ci sono più. La nuova realtà del viaggio apparentemente senza fine in un continente straniero e le file caotiche nei posti di frontiera sono cosa ben diversa dei contesti familiari lasciati in luoghi come Aleppo, Homs e Mosul. La nuova realtà non è di quelle che si sopportano facilmente.

Naham, una madre di 37 anni, arriva da Idlib, Siria. Non è tanto preoccupata della sua nuova realtà quanto del futuro dei suoi tre figli: Manar (10), Mohammed (12) e Moustafa (15). “Abbiamo dovuto lasciare la Siria perché i miei figli potessero avere una vita,” spiega. Se fossimo rimasti saremmo morti”. Ricorda come il conflitto in Siria abbia devastato la sua città. “La guerra è arrivata a Idlib ed è stato come se tutti i combattenti avessero scelto la nostra città per fronteggiarsi: Forze armate siriane, Daesh, Al-Nusra. . . erano tutti lì a combattersi l’un l’altro, ma era la gente ad essere catturata nel mezzo. Molte bombe sono state sganciate nei nostri quartieri, distruggendo scuole, moschee e bazar. ” Una di queste bombe ha lasciato una cicatrice emotiva indelebile su Naham, avendo sofferto il dolore forse più grande che si può provare nella vita: la morte di un figlio.

I suoi occhi si riempiono di lacrime quando spiega lentamente e pacatamente come una bomba abbia sottratto la vita al suo bambino di quattro anni Ahmed, il più piccolo, mentre camminava per la strada con la zia. “Ma“, dice, “la nostra famiglia ha avuto momenti felici in Siria”. Prima della guerra Naham è stata un’insegnante di educazione fisica per dodici anni in una scuola locale, mentre il marito era un imprenditore nel settore idraulico. La vita era buona. Avevano una bella casa e dei risparmi da parte. Quelli che poi, alla fine, hanno aiutato Naham e i suoi bambini a lasciare la Siria dopo la morte di Ahmed. “In un certo senso, siamo stati fortunati perché avevamo un pò di soldi”, dice Naham, “Il viaggio è molto costoso. Ci sono molte persone rimaste in Siria che non possono andarsene perché non hanno i mezzi”.

I rifugiati che affrontano il lungo e pericoloso viaggio dalla Siria e dall’Iraq verso l’Europa sono infatti costretti a pagare, in alcuni casi, somme esorbitanti per raggiungere le isole greche. Molte persone devono dare dei soldi ai militari e ai gruppi armati solo per poter attraversare i posti di blocco lungo le strade che dalla Siria o dall’Iraq portano in Turchia. Dal confine le famiglie poi prendono gli autobus o dei taxi per raggiungere la costa turca, dove imbarcarsi in carrette del mare per la parte più rischiosa del viaggio attraverso l’Egeo.

Abbiamo pagato ai trafficanti di Izmir (sulla costa turca) più di 1300 dollari ogni adulto per un posto sulla barca, per i bambini metà prezzo“, dice Naham. “In realtà era più che altro un gommone. Ci hanno spiegato per quindici minuti come navigare e utilizzare il motore fuoribordo, poi ci hanno lasciato a noi stessi. Noi eravamo i capitani“. Naham e gli altri adulti hanno anche pagato un extra di 300 dollari per potersi imbarcare in quella che pensavano fosse una barca più robusta.

C’erano 27 persone a bordo, circa un terzo erano bambini. Il mare era agitato e ci sono stati tre distinti momenti in cui gli adulti pensavano che la barca si sarebbe rovesciata. “La gente era terrorizzata“, ricorda, “Io non avevo avuto paura di morire, ma ero terrorizzata per i miei figli. Non potevo lasciarli morire lì”. Dopo oltre quattro ore in mare hanno infine raggiunto le rive di Kos, nelle isole greche. Da lì hanno preso un traghetto per Atene e poi un autobus fino al confine con l’ex Repubblica Iugoslava di Macedonia, arrivando a Gevgelija. Dopo la registrazione nel centro di accoglienza, Naham e la sua famiglia saliranno su un treno per la Serbia. Sperano di raggiungere la Germania e stabilirsi lì o, forse, chiedere addirittura asilo in Canada.

Non sappiamo dove saremo“, dice Naham, “ma so almeno che i miei figli saranno al sicuro e che, a Dio piacendo, potremo cominciare una nuova vita insieme, con la speranza di un futuro migliore”.

* Communication Specialist based at UNICEF’s Headquarters in Geneva
**Traduzione di Raffaele Deidda
*** Foto: Naham e sua figlia Manar

Lascia un commento