E se provassimo a rifondare i partiti [di Carlo Arthemalle]

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Gli italiani che non vanno a votare costituiscono ormai più del quaranta per cento della popolazione; una massa che si è gonfiata a dismisura perché la crisi, cancellando il 25 % del nostro sistema produttivo, ha funzionato da detonatore facendo emergere tutto il malcontento che covava sotto la cenere. Dentro questa massa ci sono i dipendenti delle fabbriche che hanno chiuso, i cassintegrati, i precari, i giovani senza lavoro e i dipendenti pubblici e privati ai quali non vengono rinnovati i contratti.

In questo universo palpitano anche i cuori di alcuni milioni di italiani che si erano procurati un posto al caldo nell’Italia di ieri e oggi guardano con angoscia al futuro perché le sbandierate riforme potrebbero alla fine lambire le loro regole d’ingaggio. Questa massa di nostri concittadini si è autosospesa dall’esercizio dei diritti civili e fa quello che fece la plebe all’epoca della Roma repubblicana: si è ritirata sul Monte Sacro e attende che un moderno Menenio Agrippa venga a spiegare quali motivi sussistono per continuare a convivere nella nostra Repubblica.

Nella massa appollaiata sul Monte Sacro ci sono, naturalmente, anche tanti italiani sinceramente indignati per una politica che offre una immagine scandalosa di se stessa, con corruzione, inefficienza e privilegi di casta; ma questa categoria di concittadini, molto probabilmente, non costituisce la maggioranza del popolo che affolla quel luogo d’incontro. A spingere la maggioranza della plebe sulla collina sono, più che i nobili sentimenti, la disperazione di chi non vede vie d’uscita per la propria situazione personale, l’angoscia di chi si sente declassato nella scala sociale, il panico di chi ha smarrito le certezze che credeva acquisite per sempre.

Il popolo, quel pezzo di popolo che stiamo analizzando, reagisce spesso a tutto questo con posizioni anarcoidi e col desiderio di far pagare ai poteri costituiti il proprio stato di frustrazione. Secondo la politologia classica uno stato d’animo di questo genere, così diffuso, rappresenterebbe la condizione ideale per una svolta a destra nel Paese. E qualcuno pensa che se questa evenienza non si realizza nell’immediato è solo perché la destra, in Italia, è persino più sputtanata della sinistra e tutta l’opinione pubblica ha ancora vivo il ricordo delle performance governative di Berlusconi e di Bossi. In attesa di nuovi possibili sviluppi, intanto, la moderna plebe che staziona sul moderno Monte Sacro continua a cercare tra le osterie della politica, si abbevera da chi urla più forte, si innamora del Tsipras di turno per passare subito ad altre infatuazioni e, con la più becera delle sue componenti, sostiene le campagne contro gli emigrati e contro i rom.

L’Italia, negli ultimi settanta anni, è passata attraverso prove terribili. Le difficoltà del dopoguerra, i sacrifici per la ricostruzione, l’emigrazione interna e poi le stragi di Stato e il terrorismo sono cimenti che poteva affrontare e superare solo un popolo dotato di grande carattere. Attraversare quegli anni è stato possibile grazie all’esprimersi di virtù collettive e ad una generazione di uomini politici che nella lotta al fascismo e con la partecipazione alla Resistenza aveva maturato la fedeltà a valori che stanno al di sopra delle divisioni politiche contingenti.

Le differenze ideologiche e gli obiettivi politici dividevano la destra e la sinistra di allora. Lo scontro era durissimo ma al termine di infuocate campagne elettorali si scopriva che la percentuale dei votanti era più alta di quella degli altri paesi e questo particolare racconta, senza ombra di dubbio, che destra e sinistra si riconoscevano nella democrazia e attribuivano valore alla partecipazione popolare. Nonostante gli impedimenti internazionali negassero all’Italia la possibilità di realizzare una democrazia perfetta, una tacita divisione dei compiti tra le forze politiche aveva dato vita ad un equilibrio che consentiva al Paese di reggere botta. La Dc assicurava i rapporti con un occidente egemonizzato dagli Stati Uniti e arginava le tentazioni forcaiole della nostra borghesia, di quella grande e di quella piccola.

Il PCI, dal canto suo, garantiva la fedeltà alla democrazia del mondo del lavoro e di gran parte del mondo intellettuale. La capacità di tenuta della nostra democrazia si basava essenzialmente su questo equilibrio, su questo compromesso non protocollato e un ristrettissimo gruppo di padri coscritti, appartenenti a diverse scuole di pensiero e forti solo di una grande autorità morale, si riconoscevano in questo compromesso e, quando era necessario, intervenivano per sostenerlo.

Negli ultimi decenni del secolo scorso questo equilibrio ha iniziato progressivamente a logorarsi sino a sparire del tutto; altre regole si sono imposte e un’altra generazione di uomini politici è venuta alla ribalta, per raccontare che si poteva continuare a vivere in allegria semplicemente gonfiando il debito pubblico e inserendo nel PIL anche l’economia sommersa. L’apparato produttivo invecchiava, tutti gli indicatori economici tendevano al rosso, la corruzione infettava progressivamente il Paese ma il presidente del Consiglio dell’epoca diceva soddisfatto che “la nave va”.

Noi della sinistra, adesso, tendiamo a raccontare che i guai all’Italia li ha creati Berlusconi ma non è vero perché a sbarellare si è cominciato prima. Da tempo, infatti, una specie di peronospora era passata per la nostra vigna raccontando che bisognava farla finita con i moralismi, che la finanza era meglio dell’industria e che non era necessario studiare perché bastava apparire. Un giornalista, di quei tempi aveva coniato termine “edonismo reganiano” e un numero spropositato di italiani aveva deciso che vivere secondo quella filosofia era più divertente che ascoltare le prediche dei padri coscritti. Berlusconi e Bossi sono arrivati quando il terreno era già stato spianato e milioni e milioni di italiani li hanno votati per venti anni perché erano quelli che garantivano la sopravvivenza dell’edonismo reganiano.

Di questi tempi, nei talk show dedicati alla politica, compare, sempre più spesso, qualche bello spirito che propone di curare i mali del Paese rispolverando le ricette di una volta; spunta, quindi, l’idea di risuscitare l’IRI e spunta persino il suggerimento di riorganizzare i partiti ispirandosi ai vecchi modelli. I moderati di varia tendenza pensano in prevalenza alla DC mentre chi si arrabatta tra le tavole del gran naufragio della sinistra storica si ispira alle diverse versioni che il PCI ha proposto di se stesso nell’arco dei settanta anni della sua esistenza. Anche l’idea di Renzi e del “Partito della Nazione” vanno letti in questa logica, si tratta di un “ballon d’assai”, un tentativo per capire come gli elettori del PD avrebbero accolto l’idea di rifondare la Democrazia Cristiana.

Ad osservare le cose con attenzione par di capire che il modello dell’uomo solo al comando, portato avanti per oltre trent’anni dai vari Craxi, Berlusconi, Di Pietro e compagnia cantante, non è più di moda come una volta ed è per questa ragione, molto probabilmente, che a destra, al centro e a sinistra, sta facendosi strada l’idea di riconsegnare la politica ad organismi collettivi e democratici. I falsi partiti, i partiti azienda e i cartelli elettorali mascherati da movimento politico hanno imboccato, molto probabilmente, la strada del non ritorno e anche chi sperava di costruire un solido rapporto con l’elettorato attraverso strumenti fragili come le primarie, o addirittura smanettando sul computer, deve rivedere le sue convinzioni. La politica, per funzionare, ha bisogno ha di un rapporto non effimero con il popolo che vuol rappresentare, le idee – diceva uno statista del secolo scorso – debbono circolare dall’alto verso il basso ma anche dal basso verso l’alto.

Riproviamo con i partiti, dunque, con le litigate in sezione, il tesseramento, le scelte strategiche affidate a congressi reali e con i leader che si guadagnano galloni e candidature partendo dal basso, facendo gavetta a contatto con la propria gente e il proprio territorio. Non sarà facile perché decenni di politica venduta in televisione come un detersivo hanno reso l’italiano sospettoso e anche un po’ carogna. Non sarà facile perché il mondo è cambiato radicalmente, le classi sociali si sono scombinate e le ideologie e i valori universali cha animavano i popoli non sono più quelli di una volta. La individuazione dei valori da proporre e le regole di vita interna a cui attenersi sono il primo impegno su cui dovrà misurarsi chiunque voglia contribuire a mettere in piedi un partito serio e il proponente dovrà essere il primo a rispettare quei valori quelle regole.

L’ideale sarebbe che fossero i giovani a incaricarsi dell’operazione, invadendo le sezioni e gli altri luoghi deputati, mettendo i vecchi in un angolo e incaricandosi loro di stilare regole ed elenco dei nuovi valori. Altre volte, nel corso della storia d’Italia, questo miracolo è accaduto e noi speriamo proprio che l’evento adesso si replichi.

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