Il manifesto 17 ottobre 2015. Una scomoda verità rimossa e la difesa costituzionale dei beni comuni. Salvatore Settis, 74 anni, archeologo e storico dell’arte, ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali (da cui si dimise nel 2009 in polemica con il ministro Bondi), offre il suo «segnavia» alla Fondazione Cariparo, che ha dedicato un appuntamento a «Beni culturali e mercato: missione (im)possibile?» al centro culturale San Gaetano di Padova.
«Le risorse per musei e siti, ricerca, scuola, università e cultura? È inutile nascondersi dietro un dito: l’Italia, in base ad una recente indagine dell’Unione europea, è seconda dietro all’Estonia nell’evasione fiscale fra gettito Iva previsto e quello incassato nel 2013 rispetto all’anno precedente. Si tratta, sempre secondo Bruxelles, di una somma pari a 47,5 miliardi di euro. Ecco dove i governi devono trovare i soldi!» sbotta fra gli applausi.
Per Settis fa fede sempre l’articolo 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»). Ma stride rispetto alla realtà: «Abbiamo 377 storici dell’arte nell’organico: 240 nei musei e 137 nelle Soprintendenze. Numeri che parlano da soli, soprattutto nel caso delle Soprintendenze che in un territorio capillarmente pieno di beni culturali si ritrovano con personale perfino minore di qualche museo americano e comunque con un’età media più vicina ai 60 che ai 50 anni, dunque vicina al pensionamento», evdenzia senza tanti complimenti.
Nel Nord Est il paesaggio è vittima dell’urbanistica senza scrupoli e dell’economia del cemento. Un’«emergenza» che stava a cuore ad Andrea Zanzotto e che continua ad impegnare comitati, associazioni, singoli. Che ne pensa?
«Il Veneto è una delle regioni più belle non solo d’Italia ma del mondo: possiede una civiltà, una tradizione culturale, architettonica e paesaggistica di prim’ordine. Ho l’impressione che una parte dei veneti la stiano dimenticando, in particolare quelli che poi finiscono a governare la regione e comuni molto importanti come Venezia. Negli ultimi decenni c’è stata una scandalosa «invasione» delle campagne: lo spargersi delle città come una marmellata che sta invadendo la campagna a dispetto del paesaggio. È molto doloroso dover constatare una scarsa reazione civica, anche perché si tratta di un gesto autolesionistico. Il Veneto ha una pianura fra le più fertili del pianeta, ma ha il primato dei capannoni costruiti anche se vuoti perché non c’è più industria. Una sciagurata scelta che ha finito per logorare l’attenzione, la sensibilità, il gusto e il senso civico».
Lei è stato in prima fila nella difesa degli affreschi di Giotto minacciati dal progetto di auditorium (ora definitivamente archiviato) dell’allora sindaco Flavio Zanonato. Qual è la distonia fra «cultori della materia» e pubblici amministratori?
«Solo chi non si fa troppi scrupoli né riflette abbastanza può immaginare qualcosa che metta a rischio la Cappella degli Scrovegni, un gioiello senza paragoni e patrimonio dell’umanità. Noto con grande preoccupazione che a tutti gli appelli in difesa di Giotto si reagisce sempre in modo tranquillizzante. La cripta della Cappella invasa dall’acqua? Il Comune di Padova dice di non preoccuparsi. Un fulmine colpisce l’edificio? Di nuovo: va tutto bene. Dobbiamo restare tranquilli finché non casca tutto? Credo che sia necessario, invece, tornare a uno straordinario rigore nella salvaguardia dei beni artistici e culturali: bisogna esagerare nella loro tutela proprio per essere sicuri di preservarli».
Il suo ultimo saggio è dedicato a Venezia: il «caso Mose» ha dimostrato la reale traduzione della salvaguardia?
«È un grande episodio di corruzione, davvero paradigmatico, che va ben al di là di disattenzione o errori. Nella vicenda Mose è rimasto coinvolto anche l’allora sindaco Orsoni, mentre Galan (ex ministro dei beni culturali) è ancora presidente della commissione cultura della Camera nonostante con il patteggiamento abbia ammesso le sue responsabilità. Ecco: Mose, Expo 2015 o Roma Capitale, dimostrano come, in un paese in cui l’attenzione civile è ridotta al lumicino attraverso «leggi speciali», la corruzione si installa in modo fisso e puntuale. Ciò spinge ad una riflessione ulteriore: con il moltiplicarsi dei comitati che si preoccupano del territorio, mi auguro che la coscienza della cittadinanza attiva riesca ad imporre più rigore a chi fa politica per mestiere».
Gestione dei beni culturali: una sfida sempre più ostica?
«Sono un vero e proprio problema nazionale. Soltanto oggi si comprendono fino in fondo gli effetti della criminosa e irresponsabile decisione del governo Berlusconi nel 2008. Il dimezzamento dei fondi al ministero l’ho denunciato all’epoca per primo dalle colonne del Sole24Ore. Adesso chiunque si rende conto delle conseguenze. Senza dimenticare l’atteggiamento degli amministratori locali: il sindaco di Verona vuol mettere il tetto all’Arena come se fosse un circo equestre di plastica. E non è la prima volta che manifesta questa strampalata idea. All’inizio, tutti ci hanno riso sopra. Ma il sindaco ci riprova. E può essere che a furia di insistere, magari, alla fine ce la faccia.
Può valutare la strategia del ministro Franceschini? Qual è, secondo lei, la via migliore da perseguire nel «governo» dei beni culturali?
«Non so qual è il disegno che ha in mente il ministro. Tuttavia, proviamo ad essere ottimisti. La sua prima mossa è stata nei confronti dei musei. Lasciamo stare se i venti direttori siano le persone veramente adatte. Come pure i criteri per le nomine. Ma il governo, non solo Franceschini, deve far seguire immediatamente una seconda mossa: rafforzare davvero le Soprintendenze. Cioè dotarle di personale, farle funzionare e dimostrarne il ruolo cruciale. È il vero banco di prova. La più urgente necessità è far funzionare le istituzioni culturali mediante le persone. Comunque non basta: servono più risorse, ma anche uno stretto collegamento fra musei e soprintendenze. La peculiarità maggiore dell’Italia sono proprio le collezioni museali, espressione dei nostri territori.
La Galleria dell’Accademia di Venezia non è un museo d’arte universale come il Louvre, ma riflette fondamentalmente la storia di quella città che non mi pare certo secondaria. Ed è lo stesso ovunque, da Parma a Lecce. Mi sento di aggiungere un’altra considerazione: non è che il «modello museale» italiano sia arretrato rispetto a quello degli Stati Uniti che rappresenterebbe la punta più avanzata. Se uno va in giro per New York vede tante belle cose, ma non troverà mai la Cappella degli Scrovegni. E c’è una ragione perché non la trova.
A Padova, invece, ci sono i Musei Civici e Giotto. Il punto è mettere insieme il patrimonio di proprietà pubblica (statale o comunale) e privata in un disegno generale di tutela, valorizzazione e fruizione pubblica. Altrimenti, non solo mancheremmo alla nostra tradizione e missione, ma anche a ciò che dice la legge. E per la nostra Costituzione, Giotto appartiene a un siciliano tanto quanto ad un cittadino di Padova».
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