Il Professor Gramsci e Wittgenstein [di Piero Violante]

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*In Trasformazione. Rivista di Storia delle Idee 3:2 (2014) pp. 169-172. ISSN.2281-1532 http://www.intrasformazione.com DOI 10.4474/DPS/03/02/LBR147/04 Patrocinata dall’Università degli Studi di Palermo.

Un’anticipazione del saggio di Franco Lo Piparo Il professor Gramsci e Wittgenstein (Donzelli 2014) è a pagina 128 della sua precedente opera L’enigma del Quaderno (Donzelli 2013). Lì si parla di Piero Sraffa, dei suoi colloqui incrociati ma sfalsati nei tempi e nei luoghi, con Wittgenstein a Cambridge e con Gramsci nel carcere fascista.

Già nel 2010 Lo Piparo aveva pubblicato “ Gramsci and Wittgenstein: An Intriguing Connection”, riprendendo e approfondendo un saggio di Amartya Sen del 2003: Sraffa, Wittgenstein and Gramsci. In quell’articolo Sen ricorda le conversazioni con Sraffa incentrate sul debito riconosciuto da Wittgenstein nei confronti di Sraffa nell’introduzione alle Philosophische Untersuchungen del dattiloscritto del ‘38. Sraffa – racconta Sen – manifestava stupore, minimizzava la sua influenza sul filosofo viennese e sul suo passaggio dal logicismo del Tractatus alla dimensione antropologica delle Untersuchungen, ripeteva che a Wittgenstein aveva riportato argomentazioni che a lui apparivano dei luoghi comuni. Sen ricostruisce i rapporti di Sraffa con Gramsci risalenti all’epoca di “Ordine Nuovo”, quando Gramsci era soprattutto noto come filologo e studioso di glottologia.

Allievo di Bertoli a Torino, incaricato dal maestro, colpito dall’intelligenza del giovane sardo, di portare avanti la battaglia contro i neo grammatici. Per questo, secondo Sen, Sraffa sostiene di riferire a Wittgenstein di qualcosa che per lui è un luogo comune, e cioè l’idea, appresa da Gramsci, che la grammatica è la risultante di una cultura e di una prassi individuale e collettiva. Lo Piparo parte da questo punto per mostrare, a differenza di Sen, come la possibile influenza di Gramsci su Wittgenstein non risalga soltanto alle posizioni del Gramsci giovane studioso, ma al Gramsci del Quaderno n. 29 dedicato alla lingua.

Vediamo come. Nell’introduzione al saggio Lo Piparo affianca una dichiarazione di Wittgenstein sulla sua capacità creativa, sul terreno della sua creatività: ”getta un seme nel mio terreno e crescerà in modo diverso che in qualsiasi altro terreno”, a quella in cui attribuisce un valore immenso alle conversazioni con Sraffa: si sentiva un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami. Non inseminazione ma radicale potatura o piuttosto, da come la narra Wittgenstein, innesto.

Lo Piparo si attiene alla prima metafora e dice che il libro narra dell’inseminazione gramsciana nella mente di Wittgenstein, ad opera di Sraffa. Dice che non vuole fare di Wittgenstein un gramsciano o di Gramsci un wittgensteiniano. E che il libro narra una trascurata interazione culturale abbastanza curiosa e molto indiziaria tra un carcere fascista, Cambridge, con Sraffa, nel ruolo di messaggero. Il saggio rileva questa storia indiziaria per affermare che sostanzialmente Gramsci fu soprattutto un grande intellettuale votato alla filosofia della politica e del linguaggio; che solo per otto anni dal 1919 al
1926 fu totus politicus, probabilmente anche – dice Lo Piparo – con pochi poteri reali.

Vero è – concede l’autore- che Gramsci linguista non è incompatibile con Gramsci politico. È indicativo dell’autoidentificazione di sé il fatto che Gramsci riprenda in carcere e “per sempre” un progetto interrotto per otto anni, gli anni della politica, e che ha come oggetto il rapporto tra potere e linguaggio. La trilogia gramsciana pubblicata da Lo Piparo in questi tre anni difatti ha avuto l’obiettivo di decostruire l’immagine di Gramsci come ideologo, politico, fondatore del Partito Comunista canonizzata da Togliatti, per ricostruire – a partire dai Quaderni del carcere con le loro peripezie, manomissioni e forse sparizioni e trafugamenti degni di una spy story – un Gramsci in polemica con il comunismo stalinista
ma non solo stalinista, un Gramsci “liberale” che in carcere ritrova il suo mestiere e cioè quello di professore. Da qui la sottolineatura già nel titolo del libro che attribuisce a Gramsci il titolo di professore.

D’altronde come tale era stato classificato dalla polizia viennese durante il soggiorno di Gramsci, di ritorno dall’Unione Sovietica, nell’ex-capitale dell’affondato impero asburgico. L’opera di decostruzione di Lo Piparo trova una pregevole pezza d’appoggio in una lettera del ’31 alla moglie, raramente citata,laddove Gramsci scrive:

Se dovessi uscire oggi dal carcere, non saprei più orientarmi nel vasto mondo, non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale “ (p.173). Sentimentale è un modo
inconsueto per dire ideologico come appunto traduce Lo Piparo. Gramsci dichiara di non essere più in sintonia con le tre correnti ideologiche del suo tempo: il liberalismo, il comunismo, il fascismo. (Il libro proseguiva come un sequel poliziesco I due carceri (Donzelli, 2012).

Non menziona il socialismo che evidentemente nel ’31 gli doveva apparire morto e sepolto. Perché Gramsci usa il termine “sentimentale”? Se è vero, come Gramsci sostiene, che l’uso del parlante muta il concetto della parola che usa e nel contesto in cui lo usa, quale giudizio sulla politica, sull’ideologia si fa strada in quel sentimentale? Potremmo interpretarlo come un giudizio “impolitico” che segnerebbe definitivamente l’estraneità di Gramsci alla politica?

A quest’osservazione Lo Piparo, nel corso di una conversazione, mi ha risposto, rinviandomi alla lettera del 27 febbraio 1933, alla cognata Tania. La lettera “esopica”, che Togliatti non pubblicò nell’edizione del 1947 e che Tatiana, ricorda Lo Piparo ne I due carceri definì “un capolavoro di lingua esopica, alludendo evidentemente ad un testo scritto in modo che i destinatari potessero andare oltre il significato che appare in superficie” (pp.17-18). Una lettera dalla quale Lo Piparo parte per la sua opera de-costruzione; una lettera “eminentemente politica”. Eppure l’inizio suona così: “Voglio discorrerti un po’ della mia situazione morale, per dir così, cioè della somma di sentimenti che mi occupano normalmente e di quelli specialmente che tra gli altri predominano e danno il tono generale”.

Per Lo Piparo “situazione morale”, “somma di sentimenti” sono formule che indicano pensieri politici che sono anche modi di sentire. Nella stessa lettera Gramsci scrive: «Io, a dire il vero, non sono molto sentimentale e non sono le quistioni sentimentali che mi tormentano. Non che sia insensibile (non voglio parlare da cinico o da blasé); piuttosto anche le quistioni sentimentali mi si presentano, le vivo, in combinazione con altri elementi (ideologici, filosofici, politici, ecc.) così che non saprei dire fin dove arriva il sentimento e dove incomincia invece uno degli altri elementi, non saprei dire forse neppure di quale di tutti questi elementi precisamente si tratti tanto essi sono unificati in un tutto inscindibile e di una vita unica».

Da queste due lettere, a ragione, Lo Piparo evince come il termine sentimentale sia inclusivo della politica e dell’ideologia. Pertanto l’espressione “correnti sentimentali” può essere interpretata come “correnti ideologiche”. Ora a me pare che questo slargamento semantico del sentimentale sia uno snodo fondamentale che consente di avvicinare Gramsci – ma Lo Piparo non lo prende in considerazione, preso com’è, cedendo paradossalmente a un luogo comune stalinista avallato da Gramsci dall’opposizione binaria comunismo-liberalismo – al modo austromarxista di vivere la politica e l’ideologia.

Quel mix, che i socialdemocratici tedeschi prima e gli stalinisti poi rimprovereranno ai
socialisti austriaci, di soggettivo-oggettivo che impone alla politica una metrica soggettiva. Voglio dire che la disaffezione gramsciana può essere letta come un sintomo dell’elaborazione in Gramsci di una forma di “socialismo vietato” come appunto quello austromarxista, cancellato nel dibattito della sinistra italiana sino agli anni Settanta del Novecento. È un tema che accenno soltanto e che meriterebbe un approfondimento dal soggiorno viennese di Gramsci.

Nel ricostruire le affinità elettive tra Gramsci e Wittgenstein Lo Piparo inizia con il rilevare come per ambedue il linguaggio sia il luogo della specificità umana, tesi rafforzata dalla svolta antropologica in Wittgenstein. È la tesi di Sen; c’è il non ricordo di Sraffa, il suo understatement: erano luoghi comuni. Sen ritiene che Sraffa porti a Wittgenstein le
argomentazioni di Gramsci che risalivano al periodo della collaborazione a “Ordine Nuovo”. La tesi diLo Piparo è che invece Sraffa porta a Wittgenstein le riflessioni di Gramsci consegnate nel Quaderno n. 29 scritto nel ‘35 in un sol fiato. Come dimostra Lo Piparo, Sraffa ne ha diretta conoscenza (pp.35-37).

Nel ‘36 Wittgenstein scrive Ricerche filosofiche, il dattiloscritto con il ringraziamento a Sraffa è del ‘38. l’edizione a stampa, postuma è del ‘53. Il cuore della tesi del saggio batte sul confronto serratissimo tra il quaderno gramsciano e passi delle Ricerche. Ed è un’analisi che, in effetti, lascia con il fiato sospeso. La somiglianza addirittura nei termini è sconcertante. Sraffa riferisce a Gramsci di Wittgenstein ma Gramsci cita mai Wittgenstein? No. Porta a Wittgenstein le argomentazioni di Gramsci ma cita mai Gramsci? Non lo sappiamo, sappiamo che Wittgenstein non cita mai Gramsci, ma si dichiara in debito
con Sraffa? Non è curioso?

A. Sinha in un suo commento all’articolo di Sen esclude qualunque legame tra Wittgenstein e Gramsci perché centrale in Wittgenstein è la distinzione tra senso e non senso, cosa di cui Gramsci non si occuperebbe. E Lo Piparo dimostra che sbaglia essendo proprio la distinzione tra senso e non senso il punto di partenza della rilettura della grammatica da parte di Gramsci. Lo Piparo ( p.39) parte dal saggio di Croce del 1905 Questa tavola rotonda è quadrata – e che è il punto teorico centrale del Quaderno n.29. Croce vi analizzava quella proposizione per rilevarne l’insensatezza: ”come è impensabile, così non è immaginabile, come è illogica, cos’ è inestetica, anzi in questo caso è inestetica perché illogica”. Nel 1930 Wittgenstein è sulla stessa posizione di Croce ritenendo il non senso come violazione delle regole grammaticali e semantiche che governano l’uso delle parole.

Lo è per Croce, lo è per Wittgenstein. Non lo è per Gramsci. Il passo che Lo Piparo riporta dal Quaderno n.29 ( p.41) è denso e illuminante: “ogni proposizione anche tecnicamente non grammaticale può essere espressiva e giustificata in quanto ha una funzione sia pure negativa… In realtà tutto ciò che non è grammaticalmente esatto può anche essere giustificato dal punto di vista estetico, logico ecc. se lo si vede non nella particolare logica, ecc. dell’espressione immediatamente meccanica ma come elemento di una rappresentazione più vasta e comprensiva”.

E ancora: “ la proposizione può essere non logica in sé né contraddittoria ma nello steso tempo coerente in un quadro più vasto”. Gramsci parla d’impiego, funzione, si volge al parlante, al suo contesto. Wittgenstein parlerà di gioco linguistico e affermerà: “quando cambiano i giochi linguistici cambiano i concetti e con i concetti i significati delle parole”(Della certezza, pp.64-65). E Lo Piparo ( p. 43) afferma che Gramsci e il Wittgenstein delle Ricerche sostengono che “ la buona formazione grammaticale di una qualsiasi proposizione non è data dalla sua correttezza logica né dalla sua corretta applicazione delle regole morfologiche e sintattiche. Essa coincide con la sensatezza del suo uso. È l’uso a definire le regole grammaticali delle parole e non la sua definizione grammaticale a stabilire gli usi sensati. È questo il punto di partenza gramsciano di Wittgenstein a partire dal 1935-36”.

Per rafforzare l’affinità Lo Piparo cita (p.44) un appunto a mano di Sraffa: “se le regole del linguaggio possono essere costruite soltanto mediante l’osservazione, il non senso non può mai essere detto. Nel linguaggio non ha luogo il non senso”.

E addio Tractatus, addio al Carnap che sulla distinzione tra sinnig, sinnlos e unsinnig smantellava la metafisica e puntava ad un nuovo fondazionalismo. È questa la discussione viennese negli anni Venti e Trenta, nel disinteresse di Wittgenstein che dopo la guerra si spoglia dell’eredità, fa il giardiniere in un convento, insegna senza successo in una scuola elementare (anzi ne è cacciato), torna a Vienna per costruire la bella villa della sorella (puro Loos) e poi finalmente si decide a tornare, su insistenza di Russell e di Keynes, a
Cambridge. Il “Wiener Kreis” intanto punta sulle regole, sulla Stufenbau, coinvolgendo linguisti, giuristi, musicisti. Si allunga soprattutto in musica e in letteratura nel secondo dopoguerra. Si voleva inventare una nuova regola della comunicazione.

Divenne un letto di Procuste. Il punto che m’interessa è perché con il Wiener Kreis s’insistette sul fondazionalismo. E perché dopo, da Wittgenstein e da Gramsci si guarda all’immanenza grammaticale che sarà ripresa e variata da Chomsky e al senso prodotto dall’uso.Uso individuale, o collettivo? Lo Piparo ( pp. 55-56) cerca di chiarire la problematicità della questione che inserisce elementi di differente accordo tra Wittgenstein e Gramsci quando scrive:

La solipsistica grammatica immanente (Gramsci) così come l’asserzione che di ciascun
comportamento è sempre possibile, trovare la regola o la grammatica che lo spieghino e gli diano senso (Wittgenstein) sono parziali verità che servono a far risaltare meglio due tesi condivise da entrambi i pensatori: 1) i comportamenti social-culturali non obbediscono a deterministiche leggi naturali, 2) l’uomo è per natura animale grammaticale e portatore di senso».

Lo Piparo (p.48) legge una continuità tra le posizioni del giovane Gramsci, allievo di Bertoli con il compito affidatogli dal maestro di “profiglare” definitivamente i neo grammatici e il Gramsci del Quaderno n.29 . La sua è una battaglia filosofica contro le presunte lingue funzionanti “ senza l’attrito della storia.” Una bella metafora. Ciò spiega la polemica antiesperanto di Gramsci che Lo Piparo assimila al rifiuto di Wittgenstein della lingua ideale. Scrive Wittgenstein ( The blue Book, p.37 cit. in Lo Piparo, pag.51) “Quando parliamo del linguaggio come di un simbolismo, ciò che abbiamo in mente si può
trovare nelle scienze e nella matematica. Solo di rado il nostro uso comune del linguaggio è conforme a questo canone di rigore”.

Nella sua polemica contro l’esperanto Gramsci aveva riaffermato che è l’uso a stabilire la regola e non la regola a determinare l’uso. Sottolinea Lo Piparo che il non determinismo e la mutabilità delle regole grammaticali è uno dei pilastri portanti delle Untersuchungen. Dall’esame comparato che Lo Piparo compie tra il Quaderno n.29 e Ricerche si scopre un’altra importante affinità e cioè che la grammatica definisce una cultura e una prassi più che una lingua (pp.54-55). Concetto approfondito nel paragrafo dedicato alle regole come istituzioni pubbliche.

Mi son soffermato soprattutto sul cuore teorico di questo saggio che cattura non solo per le argomentazioni ma anche per la capacità di mettere insieme e descrivere biografie e ambienti che più diversi non si potrebbero immaginare. Dalla Grande Vienna di Wittgenstein, alla Cambridge di Russell, Keynes e Sraffa, al carcere fascista di Gramsci. Ha molto tatto Lo Piparo nel descrivere la relazione così complessa e dai forti risvolti sentimentali tra Wittgenstein e Sraffa, così come il rapporto di sostegno, di consiglio, di
sollecitazione alla scrittura di Sraffa nei confronti dell’amico Nino chiuso in un carcere di cui non vede l’uscita.

L’ultimo capitolo è una sorpresa letteraria: Il carcere di Turi nel girone dantesco degli eretici. Lo Piparo commenta il commento di Gramsci al X canto dell’Inferno. Gli eretici sono condannati a conoscere passato e futuro mentre il presente è ignoto. La cecità del presente come cieco carcere? L’eresia intellettuale, il carcere come luogo in cui sono recisi i fili che legano al grande e complesso mondo della contemporaneità. Ce n’è abbastanza scrive Lo Piparo per far scattare in Gramsci una sorta d’immedesimazione con i peccatori del girone dantesco.

E Gramsci s’immedesima non con Farinata ma con Cavalcanti: se Farinata è per Lo Piparo il totus politicus, Cavalcanti è il privato. Vuole avere notizie del figlio. Capendo che il figlio è morto il gran dolore non gli consente di proseguire la conversazione: supin ricadde e più non parve fora.

Collegandosi a una lettera del 30 novembre 1931 inviata alla moglie in cui Gramsci lamenta l’oblio del presente, la distanza dagli affetti familiari, Lo Piparo vede nella proiezione di Gramsci su Cavalcanti un modo diverso della politica totale di Farinata e che esclude gli affetti. La politica dovrebbe includerli. È una suggestione che ci consegna un Gramsci che nel cieco carcere ha consumato la sua estraneità alle correnti sentimentali che reggono il mondo.

Adesso la destrutturazione di Gramsci è completa. Se la costruzione di Togliatti serviva e servì alla costruzione flessibile del Pci (a partire dall’idea gramsciana della Costituente) e alla sua partecipazione attiva nella costruzione della democrazia italiana, la decostruzione di Lo Piparo ci delinea un’immagine di Gramsci ripiegata, disillusa ma che si ancora agli studi e che sembra un appropriato rispecchiamento di questa epoca “debole”. Lo Piparo ci consegna il Professor Gramsci la cui intelligenza poteva tenere il passo con quella di Wittgenstein, rammaricandosi tutto sommato che la politica lo abbia deviato dal suo compito e dalla sua missione di dotto.

Otto anni di politica sono pochi ma decisivi se è vero che Gramsci era considerata la testa pensante del movimento operaio. Voglio dire che la politica di Gramsci ha il suo timbro perché Gramsci era un professore. Questa doppia qualità, ai tempi di Gramsci, era in Europa, nel movimento operaio, ben diffusa da Lukacs a Bauer ad Adler. L’uomo politico era tale perché era un intellettuale e spesso uno studioso. Altri tempi.
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