Università, solo sei docenti under 40 in Italia. Ecco chi sono i magnifici giovani in cattedra [di Sabina Minardi]
l’Espresso 26 ottobre 2015. Turn over bloccati, risorse scarse e i professori più vecchi d’Europa: appena sei con meno di 40 anni su 13 mila ordinari. Mentre il Governo annuncia 1.000 nuovi ricercatori e 500 posti alle eccellenze, gli atenei italiani faticano a stare al passo con quelli stranieri – “Giovani, preparati. E “intrappolati”. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi l’ha definita così, illustrando la Legge di stabilità – copyright rivendicato dal ministro Giannini -, la condizione dei professori universitari. Impantanati in percorsi aleatori. Invischiati in un sistema che non valorizza il merito. Condannati, prima di conquistare una cattedra, a invecchiare. L’istantanea che il Miur consegna, ricavata dalla Banca dati dei docenti di ruolo 2014, è disarmante: su 13.263 professori ordinari, i titolari di cattedra in atenei statali con meno di 40 anni sono solo sei. E il trend è impietoso: l’innalzamento dell’età media, in Italia, prosegue da 25 anni. Dal 1988 al 2013 l’età è aumentata di sei anni, raggiungendo quasi i 52 anni: per gli ordinari la media è di 59 anni, 53 per gli associati, 46 per i ricercatori, secondo l’ultimo Rapporto Anvur sullo stato del sistema universitario e della ricerca. E se la presenza delle donne è cresciuta, passando in 25 anni da 26 a 36 ogni 100 docenti (ma tra gli ordinari la percentuale è del 21 per cento), dal 2008 al 2013 la riduzione dei ricercatori ha penalizzato anche loro. I magnifici sei, gli unici ordinari under 40, che “l’Espresso” è riuscito a individuare, sono tutti maschi. Tutti nati nel 1976. Insegnano a Palermo, a Sassari, a Napoli, a Messina e a Bologna, quasi esclusivamente discipline economico-giuridiche. Nella metà dei casi hanno seguito una tradizione di famiglia. All’unanimità ammettono: «Siamo solo i più fortunati». Detto da Alessandro Baldi Antognini, che insegna Statistica all’università di Bologna e che di calcoli delle probabilità è un esperto, dà la misura dell’eccezionalità. «Turn over dei docenti bloccato; scarsi finanziamenti per nuove cattedre»: la spiega così, la trappola. Come l’ha evitata? «Con un valido dottorato di ricerca, durante il quale ho lavorato molto e ho fatto esperienze umane importanti. Ho avuto maestri veri, che hanno favorito esperienze internazionali›: un altro passepartout decisivo. E anche all’estero i giovani sono una minoranza? «No. I contesti sono più dinamici, anche dal punto di vista contrattuale. Il reclutamento a tempo determinato, o finalizzato a singoli settori di ricerca, fa sì che ai vertici ci siano persone giovani. L’Italia dovrebbe favorire forme di finanziamento trasversale per attività di ricerca». All’estero il quadro è diverso: se il Paese con i docenti più giovani è Cipro, con una percentuale di professori con meno di 40 anni del 50,7 per cento, anche la Germania ha quasi la metà dei suoi docenti al di sotto di quella soglia (49,2 per cento). Puntano sui giovani l’Olanda (43,4 per cento), il Belgio (30,2), il Portogallo (35,1), il Regno Unito (29,5). Nel confronto tra under 40 si collocano meglio di noi, secondo l’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 (il Mulino), praticamente tutti: l’Austria e la Finlandia (28 per cento), la Spagna (27,4), la Francia (25,9). Siamo il Paese coi docenti più vecchi. E c’è chi fa persino peggio della media: La Sapienza di Roma, il più grande ateneo d’Italia e d’Europa: «L’età media degli ordinari nel 2015 è addirittura di 61,9 anni. E ancora più preoccupante è l’età media dei ricercatori: 52 anni», dice il rettore Eugenio Gaudio che, al contrario, può vantare una carriera lampo: «Ho avuto la ventura di vincere la cattedra a 38 anni. La Sapienza è un’università antica e prestigiosa, spesso il punto di arrivo di una carriera, ma è chiaro che quando l’età è così alta c’è un problema, che chiama in causa l’intero Paese: perché la produttività migliore è tra i 20 e i 40 anni. Dopo, si può essere ottimi docenti, con una formazione sedimentata ed esperienza in più: ma la carica innovativa e creativa è inevitabilmente diminuita». Quella di Iunio Iervolino, ordinario di Tecnica delle Costruzioni alla Facoltà di Ingegneria della Federico II di Napoli, 39 anni, un cognome evocativo ma niente da spartire con l’ex sindaco («Mia madre insegnava latino e greco, mio padre era ingegnere. La sua perdita, da piccolo, è stata una delle motivazioni più forti ai miei studi»), si percepisce a distanza: «Sono competitivo, ho una volontà forte. Queste caratteristiche contano eccome», dice. Iervolino si occupa di terremoti, parla dall’Olanda e sta per volare in California. «L’ingegneria ha una grande tradizione in Italia. Non ho mai visto applicato un criterio di anzianità a scapito dei giovani. Certo mi ritengo un privilegiato. Perché la conseguenza di questo innalzamento dell’età è che i migliori vanno via, e l’ottima formazione si riversa altrove. Però, ho l’impressione che qualcosa stia cambiando. A prescindere dalle qualifiche, vedo molti giovani che fanno ricerca, viaggiano, collaborano. Se i giovani sono pochi, siamo penalizzati anche nell’accesso ai fondi: esistono bandi europei su progetti internazionali, destinati in ragione dell’età: perdiamo anche quelli». I progetti di ricerca per ricercatori junior, finanziati dallo European Research Council, registrano il deficit: sono stati 127, a fronte dei 495 della Gran Bretagna, i 326 della Germania o i 314 della Francia. «La disponibilità a muoversi è fondamentale», aggiunge Luca Corazzini, ordinario di Economia Politica a Messina, dopo aver insegnato a Padova; nato a Modena, cresciuto a Pescara, residente sul Lago Maggiore. «Dopo la laurea in Economia alla Bocconi e il dottorato in Diritto internazionale ho ottenuto un PhD alla University of East Anglia di Norwich sotto la supervisione di Roberg Sugden. Ho trascorso cinque mesi all’Università di Miami. E ho frequentato laboratori sperimentali. Sono stati passaggi importanti», dice. «Ho scoperto la bellezza di fare ricerca in squadra. Certo, io sono passato da ricercatore ad associato in tre anni e ho ottenuto l’idoneità prima del blocco del reclutamento». «I ripetuti cambi nelle modalità di reclutamento dei docenti hanno creato una situazione di incertezza», spiega Gaudio: «Oggi il prerequisito tecnico ai concorsi è rappresentato dalle abilitazioni. L’ultima è stata nel 2012. Ma anche conseguita quella, non è detto che si accederà a una cattedra. Ci sono ragioni sia qualitative che quantitative dietro un’età dei docenti così alta: da una parte i concorsi sono complessi, prevedono curriculum avanzati; dall’altra, le risorse sono scarsissime, al punto da rendere quasi impossibile l’accesso a una cattedra. Quest’anno, il Fondo di finanziamento ordinario che lo Stato trasferisce alle università, e che ne rappresenta la principale fonte di sostentamento, è lo 0,42 per cento del Pil: in Germania e in Francia è dello 0,90 per cento. La Sapienza è passata da 5.000 docenti a 3.800, e non è in grado di avviare il turn over». Su questa premessa si innesta la novità annunciata da Renzi: 500 cattedre per docenti di elevato merito scientifico, selezionati con concorso internazionale, e finanziati da uno stanziamento di 50 milioni di euro per il 2016 e di 75 milioni di euro dal 2017. E un piano da 55 milioni di euro nel 2016 e altri 60 nel 2017 per mille ricercatori. Non solo: grazie alla “tenure track”, sistema che consente alle università di assumere ricercatori a tempo per due trienni, per poi promuoverli a professori associati se conseguono l’abilitazione entro il secondo triennio, energie nuove potrebbero accedere al primo scalino della docenza. «Sono contento, specie dei nuovi ricercatori, perché la strada per avere docenti giovani è di allargare la base. Ma lo considero solo un primo segnale del Governo: di ricercatori ce ne vorrebbero 10 mila», interviene Gaetano Manfredi, rettore dell’università Federico II di Napoli e neopresidente della Crui, la conferenza dei rettori italiani: «Il modo per salvare l’università è mettere dentro i giovani migliori. C’è un profondo invecchiamento del corpo docente. Il reclutamento è bloccato. I finanziamenti sono ridotti: un miliardo e mezzo in meno in pochi anni. Il sistema piramidale, struttura naturale di organizzazione dell’università, funziona se la base dei docenti è ampia. Se si riduce diventa un cuneo soffocante, senza opportunità». «Il problema dell’università è come valorizzare il merito: la mancanza di risorse fa sì che anche i potenziali docenti – gli idonei – finiscano per rimanere troppo a lungo in una situazione di attesa. Serve passione. Ma anche la possibilità di contare, prima dell’eventuale chiamata, su altre remunerazioni». A parlare è Giovanni Perlingieri, 39 anni, professore ordinario di Diritto Privato alla Seconda Università di Napoli. Stesso nome del nonno, deputato della Costituente, e figlio del giurista Pietro Perlingieri: professore emerito di Diritto civile, ex membro del Csm, presidente delle Edizioni Scientifiche italiane. Il diritto un destino di famiglia? «Ho una grande passione per questo lavoro, che ho respirato sin da bambino», replica: «Nascere in una casa come la mia significa aver convissuto con gli strumenti del mestiere: innamorarmene è stato naturale. In più, ho sempre avuto un grandissimo spirito di emulazione di mio padre. Ma un cognome pesante può essere anche controproducente: rischia di oscurare l’impegno personale. Che è stato, e continua ad essere, grandissimo». Per il docente l’anello debole del sistema sono i dottorati. «Quelli interdisciplinari sono diventati una moda, ma se non hanno un oggetto ben individuato finiscono per non specializzare più. I dottorati dovrebbero essere davvero di qualità. Negli ultimi 40 anni si è fatto di tutto, invece, per peggiorarli. Anche il concorso nazionale ha creato l’anomalia di docenti selezionati senza più una prova orale, ma sulla base della valutazione dei soli titoli». « I dottorati drasticamente ridotti hanno creato una strozzatura nell’accesso», ribadisce Enrico Camilleri, professore di Diritto Privato a Palermo: «Ed è grave che così pochi giovani riescano ad accedere a una cattedra: io a 33 anni insegnavo negli Stati Uniti, ma sono un’eccezione. Tutte le volte che mi confronto con l’estero, mi rendo conto di quanto formi bene il nostro Paese. Tra gli ultimi abilitati ci sono moltissimi giovani: se arriveranno le risorse, avranno la possibilità di essere chiamati; ma se non accadrà, la situazione peggiorerà. Perché ci sarà un arretrato che andrà a infoltire la prossima lista di idonei». Camilleri, curriculum con esperienze di studio a Londra, Monaco, Chicago, Pechino, è stato compagno di corso, a Palermo, di un altro docente che non ha ancora raggiunto gli “anta”: Simone Pajno, ordinario di Diritto Costituzionale a Sassari. Professore associato da quando di anni ne aveva addirittura 28, anche Pajno ha seguito le orme familiari: il nonno era procuratore della Repubblica a Palermo; il padre, Alessandro Pajno, è consigliere di Stato e docente di Diritto amministrativo alla Luiss. «Ho ricevuto consigli da lui, certo: ma non li ho seguiti», dice. «Mi ritengo però più fortunato di altri. A partire dalla sede dell’insegnamento: Sassari è un’università aperta, che mi ha dato la possibilità di interagire con importanti studiosi di diritto costituzionale ma dove non si è mai strutturata una vera e propria scuola tradizionale. Il fatto che molti docenti, nel giro di qualche anno, si siano trasferiti altrove ha creato un clima di scambio, ma anche un territorio vergine, senza vincoli di tradizione accademica. La situazione accademica dei giovani è lo specchio di ciò che accade nel resto della società. Credo che sia un danno per il Paese: non tanto perché la carica di creatività si riduca negli anni. Ma perché, col tempo, perdiamo intelligenze che lasciano l’università o si trasferiscono all’estero». Al recupero dei cervelli punta l’iniziativa legislativa: «Cerchiamo le eccellenze scientifiche, i migliori nel mondo, l’alta velocità del merito», ha detto il ministro Stefania Giannini. Tra risorse stanziate e meccanismi di reclutamento, ossigeno in arrivo: «Me lo auguro. Ma non ho molta fiducia nel “tenure track”, perché dipende dall’età di ingresso nel sistema», nota Manfredi: «Negli Usa funziona perché i ragazzi cominciano presto il dottorato. Essendo un sistema lungo almeno sei anni, se inizi a 30 anni puoi diventare associato entro i 40. Altrimenti, non cambia nulla». |