A noi intellettuali, i morti della Gallura, dell’oristanese, del nuorese, non ci perdoneranno mai, perché non abbiamo usato abbastanza bene il nostro diritto di parola. Ne abbiamo fatto un atto intermittente, spesso inutile. Quei morti non ci perdoneranno mai perché abbiamo avvallato, spesso semplicemente col silenzio, progetti di ordinaria speculazione come un polmone d’acciaio che tenesse in vita a tutti i costi un corpo comatoso. Abbiamo permesso, semplicemente sbagliando le parole, che si alzassero fino all’inverosimile gli indici di tolleranza della stupidità e dell’insipienza; della disonestà e dell’occhiutaggine.
Siamo stati timorosi, timidi, qualche volta ricattabili. Abbiamo avuto paura di sembrare pedanti e ci siamo morsicati la lingua piuttosto che indicare puntualmente il dissesto, la scelleratezza, l’infinito non finire. Qualcuno di noi è stato persino complice d’inganni plaudendo alle menzogne come se fossero soluzioni. Abbiamo guardato il dito anziché la luna. Nella Regione degli orgogliosi abbiamo costruito diatribe sulla trina e sul coccio, sull’Atlantide o sul nuraghe, sul verbo e sull’avverbio; quasi mai sul territorio che spesso è, semplicemente, perfetta armonia, di piante, radici, rocce e terra. Abbiamo tuttavia parole per giustificarci e chiamiamo “eccezionali” eventi di cui possiamo avere notizia tutt’al più sul piano dei secoli. Senza aggiungere che quando eventi eccezionali s’innestano in eccezionali inadeguatezze allora si sta progettando l’Apocalisse.
Quei morti non ci perdoneranno mai perché sanno che noi avevamo il dovere di sapere, di avere la Storia a disposizione; avevamo il dovere di mantenere attiva la memoria, perché certo gli eventi eccezionali sono imprevedibili, ma la stupidità umana, è sempre, disperatamente, prevedibile. Noi lo sapevamo per esempio che lasciar costruire Centrali Nucleari in riva al mare, poteva essere un modo di rendere micidiale per secoli un evento eccezionale passeggero come uno Tsunami; e sappiamo che cementare gli stagni per farne parcheggi o costruire villette a schiera sui letti secchi dei fiumi, significa sfidare gli eventi eccezionali perché diventino carneficine. Ma le Centrali Nucleari sono state fatte, gli stagni prosciugati, i letti dei fiumi edificati…
E oggi, al capezzale della civiltà dei sardi, a noi intellettuali si chiedono parole di sostegno, ma la parola sostegno dovrebbe rappresentare un’azione quotidiana, uno sguardo lungo. Non conta più di tanto un appello al mondo quando la tragedia si è consumata: troppo comodo. La parola sostegno dovrebbe corrispondere a non stancarsi mai di urlare NO tutte le volte che si avvallano decisioni e situazioni insostenibili. La Sardegna è stata abbandonata a se stessa e noi Sardi abbiamo lasciato che ciò avvenisse, anzi ci siamo adeguati al tozzo di pane che ci derivava dal placebo del cemento selvaggio che produce lavoro solo per il tempo che occorre a liquidare una tornata elettorale.
Il corso terribile della Natura diventa devastante quando si accompagna all’ignoranza diffusa, alla disonestà degli amministratori, alla pessima memoria di chi si illude di poter mutare la propria precarietà con progetti di piccolo cabotaggio. La nostra terra ha milioni di anni, noi, con la nostra infinita presunzione, non rappresentiamo che un milionesimo di milionesimo di secondo, meno di un istante. Pretenderemo una risposta alle strazianti domande che pongono le vittime di questa ennesima tragedia annunciata? O continueremo a maledire la “malasorte”?
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grazie Marcello per le tue gighe che vanno del cuore alla mente e tornano al cuore (sic!)
La Sardegna e i Sardi si libereranno soltanto con l’ Istruzione
e la conoscenza
il rispetto della loro Cultura e della loro terra
🙂
Grazie Marcello perchè mi dai l’occasione di ricordare la immensa responsabilità che hanno gli intelettuali (tu fra quelli) nel far progredire la civiltà in tutti gli aspetti specialmente in questa epoca culturalmente anestetizzata;Propongo in questo senso la lettura di Don Tonino Bello dal testo”Vegliare nella notte” LIEVITO VECCHIO E PASTA NUOVA. Lettera a chi non ha il coraggio di cambiare.