la Repubblica, domenica 1 novembre 2015. Quando nel marzo del 1962 Giulia Maria Crespi entrò ufficialmente al Corriere della Sera, sembrò che una donna ancora giovane e anticonformista, si insediasse in uno dei luoghi più prestigiosi e tradizionali di Milano. Sono trascorsi più di cinquant’anni. In occasione dell’uscita per Einaudi della sua autobiografia vado a trovarla nella bella casa di Corso Venezia. L’attendo in un salottino.
Mi guardo intorno. C’è un senso di antico fasto. Due enormi Canaletto sovrastano le pareti della stanza adiacente. Sembra che si parlino e che dicano della loro bellezza, ormai remota. Irripetibile. La signora avanza in un’eleganza distratta. Allunga la mano che stringo con cautela. È leggera, quasi evanescente, ma salda come la voce: «Si ferma a pranzo, vero?», dice questa donna temuta amata, detestata, adulata. Finendo di leggere Il mio filo rosso ho avvertito l’unicità e il colore aspro di una storia privata e pubblica raccontata senza reticenze: «Non sono mai stata eccessivamente diplomatica. E se ripenso alla mia vita, cosa che di solito non amo fare, vedo anni meravigliosi, costellati da piccoli e grandi dolori».
Cosa è stato per lei il privilegio?
«Una condizione accettabile. Non ho rifiutato i privilegi. Perché alla fine conta solo quello che ne fai. Se li avessi usati per il mio tornaconto non avrei raccontato la mia vita in un libro».
Per anni ha rifiutato di parlare di sé, della famiglia e dei rapporti con il Corriere. A cosa si deve questo ripensamento?
«All’insistenza dei miei figli e nipoti, nonché all’editore. C’è chi ha pensato: ecco, la solita protagonista. Non si rassegna al tempo che passa».
Le pesa il tramonto?
«Per niente. Sono sempre stata una persona che ha guardato avanti. Innamorata del futuro, anche quando il futuro non riservava niente di buono».
Con cosa riempie il futuro?
«Lavorando, continuando a farlo, nonostante i miei 92 anni. Figli e nipoti mi consigliano di piantarla. Ma se sento che c’è un problema, una forza interiore mi spinge a occuparmene. E non mi interessa che altri dicano che faccio tutto questo per tornare a essere importante. Che cosa pensa del libro che ho scritto?».
Perché me lo chiede?
«Ho l’impressione di aver fatto una vaccata».
Fuori dai convenevoli, lo reputo un libro straordinario. Una donna di potere che racconta cosa è stato il potere vero e concreto in Italia.
«Nella mia vita ho commesso un sacco di sbagli e ho molti difetti. Ma ho sempre cercato la verità. Nel nostro paese quasi tutti hanno paura della verità. C’è la necessità di raccontare i fatti come sono avvenuti. I valori morali mutano, il costume cambia. I fatti restano».
Non ha l’impressione che questi benedetti fatti siano ormai coperti da valanghe di parole?
«Sì ed è per questo che la verità deve essere una forma di denuncia. Si usano parole sbagliate. Incerte. Oscure. Servili. E sa perché? L’Italia per troppi secoli è stata dominata da stranieri. Asservita a padroni che l’hanno depredata e spogliata. Umiliata. La corruzione ha un volto antico».
Le ricordo i suoi privilegi.
«E allora? Sono nata ricca con un padre importante, una famiglia che ha fatto la sua fortuna con i filati e la seta. La ricchezza non può essere una colpa».
Che bambina è stata Giulia Maria?
«Irruenta, libera, allegra e con un preciso senso di cosa sia l’ingiustizia».
Tra le persone chi ricorda?
«Ricordo la Nanny che mi raccontava storie di fate e di elfi; il vecchio guardiacaccia che non aveva mai parlato in italiano, ma solo in dialetto; la maestra Montessori con cui sillabavo; gli zii grassi e golosi; le prime volte alla Zelata; i primi balli, ho sempre amato la danza. Ricordo la guerra, di cui compresi la gravità solo quando furono arrestati alcuni amici».
Il fascismo fu benevolo con i Crespi. Mentre Albertini fu cacciato dalla direzione del Corriere. In una lettera parlò di intimidazione dei signori Crespi. Un’accusa pesante.
«Non l’ho mai ignorata. Quando domandai a mio padre il senso di quella storia mi rispose che non c’erano alternative. Se si fosse continuato così il Corriere sarebbe sparito con o senza i Crespi. A un certo punto, arrivò l’ultimatum di Farinacci che ci ingiungeva di allontanare Albertini entro otto giorni. Dopodiché, con le sue milizie, avrebbe lanciato bombe e distrutto il Corriere. Questa era la situazione».
Albertini rifiutò di andarsene.
«Fu una trattativa estenuante. Alla fine acconsentì a lasciare la direzione e a vendere la sua quota. Che i Crespi comprarono per una cifra enorme».
Che giudizio dà di suo padre?
«I padri non si giudicano. Si amano o si odiano. Il mio l’ho profondamente amato. Era un uomo antiquato. Amava l’arte e la natura e ha avuto una forte influenza sulla mia educazione giovanile».
Nel 1962 capì che i tempi erano maturi per l’ingresso al Corriere. Come visse quel momento?
«Con curiosità e umiltà, all’inizio. A Mario Missiroli era subentrato alla direzione Alfio Russo. Non è che la cosa mi piacesse. Vedevo il conservatore, l’uomo di destra, aggravato da una certa rozzezza. Per inesperienza e miopia non mi accorsi che Russo era un eccellente giornalista che stava svecchiando il Corriere».
Il suo ruolo qual era?
«Incontravo settimanalmente i vertici dell’azienda e del giornale. Riunioni indescrivibili e interminabili».
Immagino che lei scalpitasse.
«Si stava entrando in un’epoca di profonde trasformazioni. Nasceva una nuova generazione interessante di giornalisti. Ebbi la fortuna di frequentare in quel periodo Antonio Cederna. Fu lui a spiegarmi il valore della bellezza e della memoria. Tutto quello che sarebbe stato il mio impegno successivo nelle questioni ambientali e paesaggistiche, nasce in quei lontani anni Sessanta. La prima cosa che pensai fu che il Corriere non poteva ignorare quei temi».
Temi che in seguito avrebbe ripreso fondando il Fai.
«Il Fai continua ad essere una mia grande passione. Fu Elena Croce, che avevo conosciuto a Italia Nostra, a suggerirmi l’idea di fondare qualcosa di analogo al National Trust. In poco tempo progettai insieme ad altri qualcosa che coinvolgesse tutto ciò che era bello in Italia. Renato Bazzoni sfornò lo statuto e trovò il nome: Fondo Ambiente Italiano. Nell’aprile del 1975 convocammo il primo consiglio. All’inizio non fu facile far passare l’idea che le cose belle si potessero anche donare».
Che cosa è per lei la bellezza?
«Un modo diverso di dire verità. Ma è anche la totale armonia che ti sfiora, ti tocca, ti investe e ti fa andare in estasi. È l’ultimo baluardo contro gli spiriti del male».
Tornerei al Corriere. Fu lei a decidere il cambio di direzione e a imporre nel 1968 Giovanni Spadolini al posto di Alfio Russo.
«Ne parlai con il mio amico Giovanni Sartori che lo descrisse come un alleato prezioso per me. Lo dissi anche a Montanelli che alla fine patrocinò la sua candidatura. L’uomo mi era simpatico. Colto, facondo, pieno di vita svolazzava, malgrado il peso, come una libellula tra i pensieri e le cose. Ne magnificai la figura e il talento. Che sbaglio!».
In cosa sbagliò?
«Scoprii improvvisamente il suo lato vanitoso, prolisso, ossequioso al potere. Era interessato quasi esclusivamente alla politica romana. Furono in parecchi tra gli inviati a dimettersi e a trasmigrare».
Chi?
«Piazzesi, Cavallari, Bartoli, Ottone che in seguito sarebbe diventato direttore del Corriere con esiti che ho sempre reputato lusinghieri».
In tutto questo Montanelli?
«Per me resta un mistero».
In che senso?
«Siamo stati amici. Poi più nulla. Sparì senza una ragione apparente. Quando licenziammo Spadolini e annunciammo la nomina di Ottone, Montanelli andò fuori dalla grazia di Dio. Sentiva come un affronto che nessuno avesse chiesto il suo parere. Gli parlai al telefono. Fu gelido. E definitivo».
La direzione di Ottone contribuì a un nuovo svecchiamento del giornale. E fu raccontata, anche nei suoi traumi. Lei come accolse la collaborazione di Pasolini?
«La caldeggiai. Conoscevo Pasolini. Era venuto qualche volta a trovarmi alla Zelata. Un giorno mi chiese se poteva ambientarvi parte di Teorema. Sia io che mio marito acconsentimmo. E poi andammo ad assistere all’anteprima del film. Per poco Guglielmo non volle divorziare: tutte ste perversioni in casa nostra! Disse scandalizzato. Io muta e imbarazzata. Ma Pasolini era così. Faticai a fare accettare alla proprietà la sua collaborazione, che fu tollerata. Mentre il mondo bene di Milano la esecrò».
Gli anni Settanta sono anche quelli in cui si creano mire precise sul Corriere. Lei è molto ricca di dettagli. Ma su tutto si staglia la figura di Gianni Agnelli. Che giudizio ne dà?
«Con Gianni ci conoscevamo fin da giovani. Vacanze a Forte dei Marmi e al Sestriere. Aveva un indiscutibile charme. Un giorno, appunto negli anni Settanta, mi disse che era a conoscenza di manovre e appetiti sul Corriere e che avrebbe desiderato non solo mettermi in guardia ma aiutarmi. Come un cavaliere bianco».
Il giornale come andava?
«Le copie crescevano, ma c’era una forte crisi di liquidità. Occorreva l’immissione di nuovi capitali. Già diversi anni prima, Agnelli aveva manifestato interesse verso il Corriere. Ora mi offriva la sua spada».
Ed era vero?
«Ci credetti. Ma ancora una volta sbagliai. La verità è che mi consideravano una pazza, una irresponsabile, una comunista. Misero in giro la falsa voce che fossi diventata l’amante di Capanna!».
Chi la mise in giro?
«La parte più retriva della borghesia milanese. In quel periodo si fece sotto anche il vecchio Moratti. Disse che il suo interesse per il Corriere era simbolico, e che volentieri avrebbe acquistato una quota. Feci presente che anche Agnelli era della partita. Moratti non aveva nulla in contrario. Entrambi accettarono a parole tutte le mie richieste sui poteri editoriali. E quando si trattò di mettere nero su bianco ci fu una vera retromarcia».
L’azienda non era neanche più in grado di pagare i creditori e gli stipendi.
«Ero disperata».
Lei accenna a una congiura che si svolse alle sue spalle.
«In un certo senso ci fu. Pensavo di avere degli alleati. Scoprii dei nemici».
È vero che si inginocchiò davanti ad Agnelli, gli baciò la mano e piangendo gli chiese aiuto?
«Avrei fatto qualunque cosa per salvare il giornale. Agnelli mi liquidò gelidamente. All’orizzonte si profilò un quarto socio: Andrea e Angelo Rizzoli, che alla fine avrebbero acquistato la mia quota e quella di Moratti. Ma da dove venivano quei soldi?».
Non poteva chiedere aiuto ad altri?
«Crede che non ci abbia provato? Interessai anche Carlo Caracciolo e poi la Mondadori allora diretta da Mario Formenton. Videro i conti e si ritirarono spaventati. Qualche tempo dopo le stesse persone, con Eugenio Scalfari, avrebbero dato vita all’avventura editoriale di Repubblica. Con Mario eravamo restati buoni amici e un giorno mi offrì di passare alla Mondadori. Mi chiese di occuparmi soprattutto di Repubblica e io dissi sì. Avevo lasciato il Corriere con un senso di smarrimento e di pianto. In quei giorni terribili scoprii di avere un cancro».
Con quale stato d’animo lo affrontò?
«Se lo può immaginare. Pensavo che sarei morta. Il mio istinto mi chiedeva di combattere. Ogni grande malattia è un’occasione per sciogliere qualche enigma del mondo. Rifiutai di fare la chemio e andai in una clinica “alternativa”, in Svizzera. Lì un giovane mi diede da leggere un libro sui principi della biodinamica».
Antroposofia steineriana.
«Un affascinante capitolo su come affrontare i mali della Terra. Oggi direi: meno storia dell’Arte e più storia della Terra. La nostra casa comune è in grave pericolo».
Ci sono dolori pubblici e privati. Quali hanno pesato di più?
«Non farei una distinzione. Ma certo, quando morì Marco – il mio primo marito- in un incidente automobilistico, si spalancò un baratro. Volevo farla finita. E poi, miracolo, scoprii di essere incinta di lui».
Come reagì?
«Mi sembrò un dono. Chi reagì male fu mia madre. Urlò e pianse: “Che dramma!”, gemette. La allontanai indignata».
Si sente un’incompresa?
«A volte lo penso. Ma non faccio la vittima».
E la vecchiaia?
«L’ho scoperta al compimento del mio novantesimo. Le forze ti lasciano. Mi stanco facilmente. Mi hanno operato agli occhi. Vedo male. Tanti pensano: è una vecchia rompiballe, non ascoltiamola. Ma la nostra casa comune sta crollando. Mi dico: se non volete ascoltare questa vecchia pazza, ascoltate almeno Papa Francesco che parla ai vostri cuori. Ho vissuto parecchie vite e tirato molti fili rossi. Non ho mai smesso di credere al domani».
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