René Girard: “Non possiamo più dirci apocalittici” [di Leonetta Bentivoglio]
La Repubblica.it 05 novembre 2015. L’antropologo e studioso di storia delle religioni è morto ieri, all’età di 91 anni. Ripubblichiamo una sua intervista dell’aprile 2011. Il pensiero di René Girard vira in senso ottimistico. In questi nostri tempi “apocalittici“, uno dei più affascinanti e trasversali pensatori contemporanei – è antropologo, esperto di psicoanalisi, critico letterario e saggista che cattura nello svelarci i miti come eventi vividi e provocatori delle violenze perpetrate dalla Storia – vede il mondo proiettato in un corso pacificatorio e unificante: i conflitti si attenuano, aumenta il dialogo, l’umanità sembra puntare alla conciliazione. “È sempre più sviluppato il contatto tra le genti“, afferma Girard al telefono da Stanford, la città californiana in cui vive da molti anni e nella quale ha sede l’università dove ha insegnato più a lungo. “Persino l’isolazionismo statunitense cede il passo ad aperture nuove nei confronti di luoghi distanti ed economicamente fragili. Gli americani, che prima non si curavano di vicende lontane da loro, si stanno interessando come non mai alle rivolte che sconvolgono gli assetti dei paesi arabi. Basta guardare lo spazio enorme che ha dato la tivù statunitense a quel che è accaduto in Egitto, in Tunisia, in Siria, in Libia e nello Yemen”, segnala Girard. A 88 anni la sua voce è incerta e faticata; ma sulla questione araba si esprime in modo vigoroso, quasi martellante. Eppure nel passato recente, Professor Girard, la sua prospettiva sul futuro pareva molto pessimistica. “Ma la realtà sa trasformarsi in fretta: oggi i paesi arabi stanno compiendo una metamorfosi che fino a poco tempo fa sarebbe stata inconcepibile. Molte nazioni islamiche vorrebbero somigliare alle democrazie occidentali, e i popoli arabi si scagliano contro regimi corrotti e autoritari in nome di valori condivisi come la giustizia e la libertà: non è un caso che l’Egitto si sia affrancato senza alcun intervento da parte degli islamisti. Ovunque, nel mondo, le persone tendono a riconoscersi come individui e sono più sensibili a ciò che avviene nel resto del pianeta. Perciò non parliamo più di apocalisse, per favore: è un termine tanto di moda quanto inappropriato”. Le mode, certo, non si addicono a un filosofo indifferente agli “ismi” come Girard, che è nato ad Avignone nel 1923 ma ha lavorato soprattutto negli Stati Uniti, accolto fin dagli anni Cinquanta nelle più prestigiose università americane. Con dichiarata estraneità all’intellighenzia francese di sinistra, e totalmente allergico a celebrati capofila come Althusser e Lévi-Strauss, l’anticonformista Girard, durante tutta la sua vita, ha tradotto la propria adesione al cristianesimo in un irrinunciabile motore cognitivo. Atteggiamento che molti intellettuali suoi connazionali non gli hanno perdonato. In questi ultimi tempi, tuttavia, la Francia sembra averlo riscoperto, come se il trascorrere degli anni ne avesse dimostrato lo spessore: “Non avendo mai cercato di essere nel vento“, ha scritto L’Express, “René Girard è sfuggito a ogni tempesta“. Un’ottima accoglienza ha meritato il suo Achever Clausewitz, tradotto anche da Adelphi (suo editore italiano di riferimento) col titolo Portando Clausewitz all’estremo: un saggio che analizza i terrorismi e i fondamentalismi odierni partendo dal trattato ottocentesco Sulla guerra, dello stratega prussiano Carl von Clausewitz. E sono appena usciti in francese, con estremo ritardo, due libri che riguardano o coinvolgono Girard, entrambi per Flammarion. Uno è Avonsnous besoin d’ un bouc émissaire?, che il teologo austriaco Raymund Schwager (1935-2004) ha dedicato alla concezione del capro espiatorio, perno del sistema filosofico girardiano: suggestiva teoria che al meccanismo sacrificale, dominante in tutte le società, oppone l’unicità del messaggio cristiano, capace di decretare, col sacrificio di Gesù, l’innocenza della vittima. L’altro, Sanglantes origines, raccoglie testi di antropologi americani ed europei (tra cui lo stesso Girard) sulle radici delle civiltà, riconducibili a un nucleo essenziale del pensiero del filosofo di Avignone, ben intrecciato alla sua tesi-principe sul capro espiatorio: quello del “desiderio mimetico“, cioè plasmato sul desiderio René Girard ritratto da Tullio Pericoli altrui e quindi suscitatore di rivalità, essendo l’eccitazione mimetica ciò che spinge il gruppo a compiere delitti, che si considerano sanciti dal fato o da una divinità. Da parte sua Girard, in quell’evento-chiave del cristianesimo che è la crocifissione, identifica l’anti-sacrificio capace di smascherare il male, ricondotto alla sua natura terrena e quindi spogliato dalla menzogna pseudoespiatoria creata per “divinizzarlo“. Da qui attinge la sua sostanza di filosofo cristiano. Che ne dice del consenso finalmente ottenuto dai suoi scritti in Francia? È dunque ottimista anche da questo punto di vista? Vede il medesimo clima positivo in Europa? Come si è collocata, in questa sua prospettiva ottimistica, la crisi libica? Chi è il capro espiatorio, in una situazione del genere? |