Sisaia e le altre vittime. La leggenda del matriarcato [di Maria Antonietta Mongiu]

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Per non dimenticare che la violenza sulle donne traccia la storia dal mondo antico ad oggi ho voluto ripubblicare un pezzo uscito in La Nuova Sardegna il 13 marzo 2013 per promuovere ulteriormente Tre passi nella violenza iniziativa che la Rivista online SardegnaSoprattutto , la Biblioteca Universitaria, l’Istituto Gramsci della Sardegna organizzano a Cagliari Sabato 28 nella Sala Settecentesca in Via Università 32 dalle 9:30. Un gruppo di donne con storie differenti vuole provare a riflettere sulle diffuse pedagogie che continuano ad alimentare la violenza e sulle percezioni “stravolte” del ruolo delle donne nel passato e nella contemporaneità. Oggi finalmente si ha il coraggio di ammettere che il 30% delle donne ha subito violenze fisiche. Non osiamo, se non eccezionalmente e quasi sempre privatamente, dare parola alle altre. Ovvero a delegittimazioni, svalutazioni, emarginazioni, esclusioni ad opera di uomini che spesso cercano e ottengono complicità in altre donne. In un colpo tolgono valore e autorità ad entrambe. Ciò accade soprattutto in quel territorio pieno di zone d’ombra che si chiama politica dove ancora fa scuola la cooptazione come pratica alfine di assolvere al nominalismo della rappresentanza e dove, anche nelle vicende giudiziarie, si assumono pesi e misure diverse per uomini e donne. Per tacere della nullificazione di ogni tentativo di partecipazione per una legge elettorale regionale liberticida e antidemocratica. E’ tempo di mettere sotto i riflettori questa forma di violenza che impedisce di risolvere con politiche adeguate quella fisica in tutte le sue declinazioni fino alla morte (m.a.m).

Tre storie di donne lontane nel tempo ma con destini simili, vicende che annullano le fantasie sul potere femminile nella società sarda. Michela Murgia ha scritto che il femminicidio fa piazza pulita delle fantasie sul potere delle donne. Se diventasse pedagogia diffusa faremmo un passo avanti specie in Sardegna dove si vagheggia di matriarcato! Lo sciocchezzario che ne deriva, frutto di un tenace autocolonialismo, è amplificato persino dalla pubblicità istituzionale con narrazioni che scantonano nella mitopoietica.

Si retrodatano domini femminili secondo il peggiore etnocentrismo e una scadente storiografia. Sono le donne a volte a perpetuare lo stereotipo convinte che qualche autoriconoscimento possa derivare dalla sovrapposizione di un consolatorio antico epos con quello personale o con il recente femminismo. La conferma? Welfare e servizi al di sotto dei parametri ed ininfluenti rappresentanze femminili. L’aumentato numero di donne in politica, è in parte subordinato a logiche minoritarie e di facciata.

Giovanni Lilliu, nel documentario dedicatogli da Marilisa Piga, affida il futuro alle donne. L’ottimismo dell’auspicio cela uno sconsolato pessimismo. Nei suoi scritti ipotizza la centralità delle nostre antenate, specie nella sfera del sacro, forse a surroga della miserabile quotidianità. Il mondo antico era violento per tutti. Per le donne di più. La mentalità e la cultura non cambiano in una generazione o con una messa in scena, soprattutto se la crudezza dei fatti smentisce le retoriche matriarcali antiche e recenti.

Tre luoghi dai misteriosi nomi Sisaia, Manasuddas, Sant’Antiogu riferiscono di destini che dall’oggi si inabissano nei meandri della storia. Tre luoghi, a pochi chilometri, con tre corpi, straziati ed occultati, di donne vissute a distanza di millenni. Orrore e terribilità identici. Sisaia ovvero Blatta, la prima. Ha oltre quattromila anni. Qualche compassionevole studioso ha trasfigurato il nome dell’anfratto, vicino ad Oliena, dove il Gruppo Grotte di Nuoro la scoprì, in “antenata” per risarcirla almeno nella toponimia. Maria Luisa Ferrarese Ceruti e Franco Germanà, negli anni Settanta, ne ricostruirono la vita e le profanazioni.

Ricomposero le sue ossa e le esposero nel Museo Archeologico di Nuoro. Quel corpo martoriato, dopo la segretezza ed il dolore, continua ad essere generoso con la storia della medicina e della mentalità. A Sisaia fu trapanato il cranio che si rinsaldò una volta riposizionato il disco osseo. Ignoriamo le ragioni e come si ovviò al disumano dolore. Subì fratture (fu picchiata?) che ugualmente si ricomposero. Morì per neoplasia ossea. Chi era questa donna che si trascinava sopportando atrocità inumane. Una sciamana? Una strega? Una diversa dalla sua comunità e sottoposta a violenze che gli studiosi cercano di nobilitare con l’alibi della sacralità.

Manasuddas, il secondo luogo. Una caserma abbandonata. Una sorta di chiostro con un pozzo. La donna? Pietrina Mastrone. Non fu sola nell’orrore in quell’autunno nel 2007. Un ragazzo, Tiziano Cocco, condivise con lei gli assassini ed il pozzo che fu la loro tomba. Senza essersi mai visti i loro corpi marcirono insieme. Pietrina Mastrone viveva ad Oliena. Era borderline. Come ovunque la sua fragilità era luogo di iniziazioni proibite ed inconfessabili a conferma che l’amplificata retorica sulle donne occulta violenza, abusi, comportamenti omertosi.

Sant’Antiogu l’ultimo luogo. Dina Dore la donna. Uccisa pochi mesi dopo Pietrina Mastrone a casa, luogo pericoloso per molte. Bene hanno fatto le donne di Gavoi ad andare oltre la rimozione ed il silenzio e gli organizzatori di “Isola delle storie” a proseguire. Incombe e ci perseguita tuttavia il pensiero di una donna che muore soffocata nel buio di un cofano ascoltando il pianto della figlia.

Il femminicidio si sostanzia di parole devastanti prima che di gesti omicidi. La favola sul matriarcato di chiacchiere evanescenti e bugiarde e di omertà. Rifiutiamole, d’ora in poi.

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