Prima Ainis, poi l’Untore: non so chi mi ha diffamato ma so il perché [di Vito Biolchini]

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Pubblichiamo anche noi l’articolo scritto da Vito nel suo blog Domenica 29/11/2015. Lo facciamo perché riteniamo che la violenza delle parole è drammatica quanto quella fisica e riguarda uomini e donne. Le differenze, si è sempre detto sono una grande ricchezza ed essere contro corrente e con spirito critico è della democrazia ed attiene a tutti, intellettuali compresi. Il fascismo delegittimava chi aveva parere diverso svalutandolo sul piano personale. Dalla delegittimazione si passava all’isolamento e via negando parola fino all’eliminazione. Fece cosi anche lo stalinismo. La parola che chiede conto al potere, a chi governa, ai decisori è il fondamento della democrazia conquistata con la Resistenza. Abbiamo bisogno di meno celebrazioni retoriche con labari e bandiere e più di pratiche (NdR).

Perché le vittime di violenza spesso non parlano e non denunciano i loro aggressori? Perché si sentono deboli, perché hanno paura e perché temono di non ottenere giustizia. E soprattutto perché, benché vittime, inspiegabilmente si vergognano. Tutto questo io l’ho provato sulla mia pelle in questo ultimo anno e mezzo in cui sono stato bersaglio di ripetuti attacchi da parte di un blog anonimo, quello dell’Untore, di cui ora si può e si deve parlare, visto che l’autorità giudiziaria ritiene di aver individuato colui che nell’ombra, protetto da sistemi informatici praticamente inviolabili, ne era il titolare. Il signore in questione non l’ho mai visto né conosciuto e ritengo che non possa essere il vero autore dei post (una decina) che mi sono stati dedicati. Leggo sui giornali che ci sono indagini in corso e mi auguro che diano i frutti sperati, smascherando una rete di collaborazioni che immagino ben ramificata e straordinariamente qualificata. Attendo sviluppi. Sarei curioso di scoprire chi si è accanito in questo modo contro di me. Intanto rifletto a voce alta.

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Ieri, nel corso di una iniziativa contro la violenza sulle donne, Maria Antonietta Mongiu ha descritto in maniera precisa un particolare tipo di violenza, quella che oggi a Cagliari si esercita contro gli intellettuali. “Quando agli argomenti si risponde con le offese, con le allusioni, con i sospetti di interessi personali, quando non si entra nel merito delle questioni ma si risponde in maniera scomposta, allora si esercita una violenza”, ha spiegato bene la professoressa. E io purtroppo, come lei, so cosa significa.

È strano essere colpiti da un anonimo, non sai come difenderti. Non sai se reagire e se sì, come farlo. Intanto però subisci il colpo, perché siamo esseri fatti di parole. Le parole salvano, ma le parole anche condannano. Ho cercato di andare avanti per la mia strada, cercando di non farmi condizionare, non parlando con nessuno di ciò che stavo vivendo, combattendo la paura di essere colpito per ogni articolo che scrivevo, ostentando una normalità che però non c’era più. Perché sono stato attaccato in questo modo? E da chi?

Certamente non poteva sfuggirmi che quasi sempre finivo nel mirino degli anonimi diffamatori dopo che, su questo blog, criticavo l’operato dell’amministrazione cagliaritana di centrosinistra. C’era una evidente correlazione tra le mie analisi e l’azione di discredito, correlazione che peraltro avevo già notato in precedenza, operata da un altro blog anonimo, quello a firma del sedicente Gabriele Ainis.

Nel famoso “blogghino”, con l’evidente compiacimento della sinistra governativa cittadina, il sedicente Ainis aveva ad esempio provato a difendere Zedda nei mesi caldi del caso Crivellenti (che per inciso scopro oggi essere, secondo Sardinia Post, “vittima di una campagna denigratoria”: però sarebbe stato interessante leggere nell’articolo in questione i nomi di chi questa campagna l’avrebbe orchestrata e perché, altrimenti il risultato è che si iscrivono automaticamente, e irresponsabilmente, nel novero dei mestatori d’odio, quelle persone che quella nomina l’hanno contrastata con solidi argomenti e a viso aperto).

Ad Ainis venivano girati informazioni di evidente provenienza politica, per cercare di arginare la ricaduta dei ragionamenti pubblici che io in questo blog proponevo ai miei lettori. Il resto lo facevano le solite offese, nel tentativo evidente di screditare la mia professionalità, di ridicolizzarmi, per togliere, attraverso un blog anonimo, peso alle mie argomentazioni. Il rapporto tra l’anonimo e l’area politica che lo ha adottato per i suoi lavori sporchi è stato così smaccato che un noto esponente della sinistra governativa cagliaritana si è vantato pubblicamente e a più riprese non solo di conoscere l’identità di Ainis, ma anche di averlo addirittura incontrato. Sarebbe interessante, ai fini dell’indagine in corso, avere anche la sua testimonianza per scoprire se Ainis e l’Untore fossero la stessa persona (e io penso che lo sono).

Tramontata la stella di Ainis, è arrivato l’Untore. La battaglia di fondo era sempre la stessa: colpire chi ritiene che la cultura e l’identità sarda abbiano una loro propria specificità e difendere, in ambito archeologico, la supposta ortodossia dell’accademia e delle soprintendenze. Solo che i difensori della “verità ufficiale” colpivano nell’ombra mentre gli altri non avevano paura di esporsi con nomi e cognomi. Incredibile, vero?

Le vittime designate sono state inizialmente poche, una in particolare: Antonello Gregorini, tra i fondatori di Nurnet. Io non so in che modo Antonello potrà mai essere risarcito delle terribili falsità che l’Untore ha riversato su di lui, cercando di colpire la sua credibilità, la sua reputazione, la sua dignità. E fa specie che un giornale molto diffuso come La Nuova Sardegna pochi mesi fa abbia preso spunto dalle “critiche” dell’Untore per scrivere un articolo su Nurnet: pure questo abbiamo dovuto subire.

La mia impressione è che questo gioco del blog anonimo sia sfuggito di mano al suo stesso inventore che, settimana dopo settimana, capace di garantire una assoluta impunità ai suoi sodali, ha iniziato ad imbarcare ignobili specialisti della diffamazione, desiderosi solo di scatenare il loro livore contro il mondo dell’archeologia indipendente e quattro o cinque giornalisti, peraltro tutti più che precari. Confesso che da bambino sognavo di fare l’archeologo: ma non penso di essere stato colpito dall’Untore per questa mia carriera mancata, piuttosto per quella che poi ho effettivamente intrapreso.

Dunque in questo tritacarne ci sono finito anche io. Rispetto ai tempi di Ainis, il gioco però si stava facendo più duro. L’Untore ricorreva a pochi argomenti (e meglio se totalmente falsi), conditi da molta, molta volgarità, e questo con un unico obiettivo: screditarmi in tutti i modi. Perché sono stato attaccato in questo modo? E da chi? So bene che il mio modo di fare giornalismo è scomodo e che suscita reazioni contrastanti, so di non piacere a molti; ma questo giornalismo è scomodo soprattutto per me, che mi sono sempre esposto in prima persona e non ho mai usato l’arma dell’anonimato per colpire in maniera vigliacca nessuno.

Chi invece, confidando in una assoluta impunità, ha provato ad addossarmi la responsabilità di avere fatto fallire Radio Press? Accusa profondamente infamante (perché non c’è niente di peggio di provare a trasformare una vittima in un carnefice); accusa inoltre inverosimile (ero un dipendente, mica l’editore), che nessuna delle persone che hanno lavorato in radio e che dal fallimento sono state travolte può sostenere neanche nascondendosi dietro il più sicuro anonimato.

Chi ha provato a convincere i suoi squallidi lettori che io lavorassi in Rai senza concorso e grazie ad aiuti politici? Peccato che come tutti i miei colleghi sanno (o possono facilissimamente verificare), io della Rai sono solo un collaboratore precario a partita Iva (per quelli come me non si fanno i concorsi) e ho iniziato a collaborare con la Rai tanti anni fa per un motivo molto semplice: perché io la radio la so fare. Però bisognava colpire l’immaginazione di chi non è dell’ambiente per minare la mia credibilità e la reputazione, che sono il mio unico capitale. L’Untore poi ha colpito anche i nostri affetti, cercando di minare la serenità familiare mia e di altri: perché colpire la mia compagna, accusandola nientemeno di rubare soldi pubblici?

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Così come con altre sue vittime, l’Untore ha provato a farmi perdere il lavoro: non c’è riuscito. Però ha fornito argomentazioni malate ad un’area politica che si è sentita minacciata dalle mie analisi e che ha rilanciato le sue anonime quanto inconsistenti accuse: “Biolchini attacca Zedda perché voleva qualcosa in cambio da lui”, “Biolchini attacca Zedda perché voleva soldi per la sua compagna”, “È un fallito che deve tutto alla politica”, e cose così. Di questo ho le prove e non avrò certo bisogno delle indagini dell’autorità giudiziaria per farmi un’idea precisa su chi ha provato a speculare su questi ignobili falsità.

La domanda però resta: perché dunque sono stato attaccato in questo modo? E da chi? A chi ho dato fastidio? È ovvio che io so, ma che evidentemente non ho le prove. Quelle dovranno trovarle gli investigatori. Ora anche io presenterò la mia bella denuncia. Lo devo a me stesso, alla mia dignità. Perché adesso la possibilità di smantellare questa ignobile rete che ha colpito nell’ombra da una posizione di forza persone che non potevano difendersi, ora è reale. Io da questa vicenda esco a testa alta, qualcun altro meno.

Tuttavia il problema resta: in questa città la violenza contro chi propone punti di vista diversi e non convenzionali e non ha paura delle proprie idee è crescente. Agli argomenti si risponde sempre più spesso con i pettegolezzi, mai nel merito.

Però sono stati mesi pesanti, nei quali non nascondo di avere perso parte della mia voglia di intervenire nel dibattito pubblico per paura di essere attaccato da persone squallide di cui però adesso non vedo l’ora di conoscere l’identità. E che mi auguro vengano fermate e messe nella condizione non di scrivere più una riga: da nessuna parte.

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