Un altro 25 novembre è passato [di Federico Palomba]
Qualche declamazione sterile, qualche finta lacrimuccia: ma niente più. Però qualcosa è accaduto: sono morte altre 152 donne in un anno, una ogni tre giorni. Ad opera prevalentemente di un maschio, convivente o ex partner; e quasi sempre per gelosia o per volontà di possesso. Poche le denunce serie: della segretaria nazionale della CISL; di qualche istituto di ricerca (come l’EURES, che fa monitoraggio); di Ignazio Messina, segretario nazionale di Italia dei Valori che ha presentato una proposta di legge non presa in considerazione; persino del prefetto di Roma, Gabrielli. Se ne ricava un senso di rabbia per l’atteggiamento di disinteresse delle nostre istituzioni, che fanno qualche legge, cui non danno seguito, quando sono pressate dalle sedi internazionali che ci chiedono che cosa è stato fatto dopo qualche Convenzione sovranazionale. Eppure da tempo ne sono state sottoscritte di importanti. In particolare vanno richiamate: 1) la Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979; 2) La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata senza voto da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993. L’11 maggio 2011, poi, è stata adottata a Istanbul l’importante Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77 e quindi strumento internazionale giuridicamente vincolante. In Italia, nel 2009 è stata approvata una legge che inseriva alcune disposizioni contro la violenza in un decreto legge per la sicurezza pubblica, il cui unico aspetto positivo è l’inserimento nel codice penale della norma cosiddetta anti-stalking. E’ seguita nel 2010 l’adozione di un piano nazionale contro la violenza, fatto non male: soltanto che è rimasto totalmente lettera morta, secondo le nostre tradizioni. Con la legge 15 ottobre 2013, n. 119 sono state dettate disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonchè in tema di protezione civile e di commissariamento delle province. Si tratta di interventi normativi affetti da strumentalità (necessità di rendere conto di quanto fatto in esecuzione di documenti internazionali vincolanti), frammentarietà (disposizioni all’interno di più ampie leggi su sicurezza in genere, protezione civile, province), l’inorganicità (dire episodicamente qualcosa pur che sia, anche se non di definitivo o di completo). A ciò si accompagna la mancata attuazione delle disposizioni. Ne emerge il quadro di un Paese disattento, come per gran parte dei problemi che riguardano l’essere e non l’avere. Ed invece il tema della violenza sulle donne e domestica (riguardante le relazioni familiari, compresi i figli minori) è terribilmente serio: ci sono di mezzo la serenità e la vita di tante donne e di interi nuclei familiari, che vivono nel terrore di gesti violenti di omicidio, di lesioni spesso gravissime -una ragazza è stata ridotta allo stato vegetativo irreversibile; altri sono stati sfregiati irreparabilmente con acido- o di distruzione dei beni, non di rado accompagnati dal suicidio. Sarebbe, invece, giunta l’ora di essere seri intervenendo finalmente in modo organico su tutti i fronti: il controllo, la repressione, la cultura preventiva e il sostegno. Il problema del controllo delle persone violente non è stato mai affrontato seriamente. Esso riguarda generalmente maschi di ogni ceto sociale, spesso abbienti, che vivono nella delirante idea che le donne o i figli sono loro proprietà e che se così non è nessun altro potrà godere del rapporto con loro. Questi maschi frustrati si sentono negati nel loro potere e non tollerano questa idea. Costoro, dopo le prime manifestazioni di intolleranza, devono poter essere “marcati stretti” dall’autorità di pubblica sicurezza invece che essere lasciati liberi di molestare, minacciare, girare con armi, ordire folli disegni di sterminio. Le norme contro lo “stalking” sono del tutto insufficienti, come si è visto dai “femminicidi” in costante aumento. Gli strumenti di controllo ci sarebbero, e sarebbero veramente efficaci, se solo si prevedesse l’applicazione a queste situazioni di quelli contenuti nel codice antimafia (il riferimento è solo alle procedure, ovviamente), che hanno rimodulato e sostituito ogni altra misura di prevenzione personale; a questa potrebbero essere utilmente aggiunte misure temporanee incidenti sulla disponibilità patrimoniale. Sul piano repressivo sono pensabili una serie di interventi normativi, tra i quali: una più forte protezione delle relazioni familiari e affettive con maggiori punizioni e nuove figure di delitto (come la violenza psicologica), maggiori possibilità di intervento sul piano dell’applicazione delle misure cautelari, riduzione al minimo o esclusione di attenuazioni di pena per riti alternativi e di benefici penitenziari. Sul piano preventivo occorre seguire seriamente le moltissime e importanti indicazioni della Convenzione di Istanbul per una politica organica ed integrata di interventi educativi volti a scardinare lo stereotipo del maschio padrone e a far crescere la cultura della parità tra i generi e del rispetto verso i bambini, inclusi programmi di educazione alla gestione del conflitto in modo che questo evolva verso forme di componimento e non di risoluzione violenta. Tali programmi devono riguardare tutte le istituzioni a cominciare dalle strutture educative, compresi corsi approfonditi di formazione degli educatori, ed i mezzi di comunicazione, che devono veicolare messaggi di parità e di rispetto di genere e non di violenza e di sopraffazione. Su questo punto è necessario che il Parlamento, partendo dall’esame della Convenzione di Istanbul, rifletta su se stesso e sulle altre istituzioni attraverso una apposita Commissione di inchiesta volta ad accertare quali sono le misure legislative necessarie e le responsabilità, anche politiche ed amministrative, della mancata attuazione di quanto disposto dalle Convenzioni internazionali, dalle stesse leggi nazionali e dai Piani antiviolenza approvati dalle stesse sedi italiane ma rimasti lettera morta in chissà quale cassetto. Infine, è necessario agire sul piano del sostegno, non solo attraverso i centri antiviolenza (meglio se con possibilità di alloggio delle donne e delle famiglie sottoposte a violenza) che almeno esistono, anche se insufficienti, ma anche prevedendo in favore di esse l’assistenza legale gratuita e l’anticipazione del risarcimento del danno a carico dello Stato, che dovrebbe poter chiedere ed iscrivere il sequestro conservativo dei beni della persona violenta ed eventualmente la vendita forzata o l’acquisizione degli stessi in seguito a condanna. Lo Stato deve interporsi tra aggressore e vittima nel difendere questa seconda, anche perché esso è responsabile della sicurezza dei cittadini che spesso non tutela. Siamo alle solite. L’Italia è troppo spesso superficiale e non presta la dovuta attenzione ai problemi della vita delle persone. Senza impegno non si ottiene niente: perciò bisogna ricordare che alla mancanza di una seria volontà potrebbe essere ricondotta la responsabilità di tante efferate stragi e delle ferite, spesso non rimarginabili, che le vittime non uccise ed i superstiti degli eccidi porteranno per sempre nelle loro anime. * Già vice presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati |