Gramsci e la scienza dell’organizzazione [di Silvano Tagliagambe]

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Testo dell’intervento tenuto a Ghilarza, Torre Aragonese, il 3 dicembre 2015, nel corso dell’iniziativa “Gramsci e la religione” con la partecipazione di Adriano Prosperi, Andrea Oppo, Silvano Tagliagambe e il coordinamento di Maria Antonietta Mongiu. Si tratta del secondo appuntamento dell’”Omaggio a Gramsci” organizzato dalla Rivista SardegnaSoprattutto col patrocinio del Comune di Ghilarza e del FAI Sardegna. Pubblicheremo in questo sito tutti gli interventi di questo percorso (NdR).

Carissima mamma
tu non puoi immaginare quante cose io ricordo in cui tu appari sempre come una forza benefica e piena di tenerezza per noi. Se ci pensi bene tutte le quistioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene o di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già d’allora nell’unico paradiso che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli”.

Questa lettera, notissima, del 15 giugno 1931 di Gramsci alla madre è doppiamente significativa: per lo sguardo nostalgico verso il passato, con il riferimento al modello della religiosità popolare che richiama, e per la ferma convinzione che l’unica speranza per il futuro sia la costruzione di un saldo pensiero condiviso, alimentato di continuo proprio da quel movimento perpetuo di passaggio di ogni azione che lo meriti da una generazione all’altra.

Esaminiamoli con la dovuta attenzione questi due aspetti, perché ci forniscono una chiave interpretativa di grande efficacia per comprendere il pensiero di Gramsci. Il primo è l’espressione di un senso della religione profondamente nutrito da quella concezione del mondo bizantina che in Sardegna aveva radici robuste, dovute al fatto che dopo la caduta, nel 698, dell’esarcato bizantino d’Africa, con l’entrata degli arabi a Cartagine, la Sardegna fu il solo territorio occidentale dell’ex impero giustianianeo in cui i bizantini non furono scacciati da nuovi conquistatori, cosicché la loro presenza e incidenza riuscirono a permanere, sfumando lentamente nel tempo.

Influsso del mondo bizantino significa, come hanno ben chiarito Lotman e Uspenskij nel loro fondamentale articolo del 1977 Rol’ dual’nych modelei v dinamike russkoj kul’tury do konca XVIII veka (Il ruolo dei modello bipolari nella dinamica della cultura russa fino alla fine del XVIII secolo), riferimento a una cultura caratterizzata da una polarità di fondo, che si esprime nella natura duale della sua struttura. I suoi valori essenziali non solo religiosi, ma anche ideologici e politici, si ripartiscono infatti in un campo assiologico a due poli, separati tra loro da un netto confine, cosicché il campo medesimo risulta sprovvisto di una fascia assiologica neutrale.

Un tipico esempio di questa situazione è proprio il fatto che la concezione del Medioevo russo, a differenza di quella occidentale, non ammette, come zona intermedia tra gli estremi dell’Inferno e del Paradiso, il Purgatorio. Ne scaturisce, come conseguenza immediata, l’impossibilità di riconoscere, per quel che riguarda la vita terrena, un tipo di comportamento che possa essere qualificato come neutro, né santo, né peccaminoso, tale da fungere da fascia di neutralità strutturale tra i poli di questa opposizione binaria e da riserva dalla quale attingere gli elementi che, proprio perché non coinvolti in un giudizio di esaltazione o di condanna estreme, possano dar corpo a una zona cuscinetto di mediazione tra due fasi diverse dello sviluppo e garantire così il passaggio dall’una all’altra senza eccessive scosse e fratture.

Nel mondo occidentale, rilevano Lotman e Uspenskij, la presenza e la disponibilità di un ampio spettro di comportamenti considerati neutrali e di una fascia di istituzioni sociali qualificate anch’esse come tali hanno consentito ai critici della società del tempo di attingere i loro ideali da ben precisi ambiti della realtà circostante (dall’ordinamento sociale extraecclesiastico, dalla famiglia piccolo borghese); la loro lotta assumeva, di conseguenza, il significato di un tentativo di corrodere e ribaltare la gerarchia di valori esistenti, facendo in modo che elementi attinti dalla sfera neutrale divenissero valori standard, cioè la norma.

Ne scaturiva, come si è detto, la possibilità di stabilire una continuità non fittizia tra l’oggi che veniva negato e il futuro atteso e sperato: e proprio in virtù del riconoscimento di questa possibilità venne via via emergendo e consolidandosi una visione della storia che accettava la sfida dei timori, delle ansie, delle angosce che solcano l’esistenza umana senza per questo cedere alla tentazione di fuggire dalla realtà.

Nella cultura russa, invece, l’assenza di un’idea di progresso, intesa come opportunità di trarre fuori da elementi del presente le condizioni per una trasformazione di quest’ultimo in grado di produrre forme nuove, fa sì che in essa finiscano col prevalere meccanismi che riproducono fatalmente aspetti del passato, e che l’unica possibilità di mutamento consista nel ribaltamento escatologico del tutto. In seguito alla prevalenza, presso che assoluta, di questa visione il processo dinamico presenta aspetti del tutto particolari, che portano a vedere il cambiamento esclusivamente come radicale ripulsa della fase precedente e il nuovo come risultato di una pura e semplice trasformazione del vecchio o, per meglio dire, di un ‘operazione di capovolgimento di esso e dei suoi valori.

Ecco dunque perché, nella lettera alla madre, Gramsci menziona il paradiso e l’inferno e i relativi valori di bene e male e non fa alcun menzione del purgatorio e della sua neutralità fra questi estremi.

Per la costruzione di un pensiero condiviso capace di affermarsi è tuttavia necessario che si formi una coscienza collettiva che, al pari di un organismo vivente, sia il risultato di una molteplicità che si è unificata attraverso l’attrito dei singoli, cioè di una varietà e diversità che sia l’espressione di un equilibrio, precario quanto si vuole ma comunque capace di resistere, tra l’uno e i molti, tra l’unità e la differenza. Gramsci è quanto mai netto su questo punto: “Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità è la più delicata, incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale”.

Qui sta la pietra angolare della teoria dell’egemonia, la quale deve integrare a livello di sovrastrutture la lotta di classe, approfondendo e componendo le contraddizioni non antagonistiche tra gruppi sociali nel contesto di una società civile che tende a identificarsi con il popolo e a superare il suo tradizionale distacco dallo Stato. E deve altresì riuscire a realizzare un esame comparativo tra culture diverse appartenenti non solo alla stessa epoca, ma anche a età diverse, esplicando una funzione connettiva, di cucitura, fra i vari strati di una medesima massa, per un verso, e fra passato e presente, fra tradizione e innovazione.

Ecco allora il grande problema di Gramsci, che affiora e ritorna sovente e in varie forme nei Quaderni, quello della traducibilità reciproca dei vari linguaggi, filosofici e scientifici, superando quella che Kuhn, nella sua opera del 1962 The Structure of Scientific Revolutions, autentica pietra miliare nel dibattito epistemologico contemporaneo, considera l’inevitabile rottura della comunicazione dovuta al fatto che il processo di sviluppo di ogni disciplina scientifica è contrassegnato dal succedersi dell’egemonia di scuole differenti, caratterizzate dalle “loro incommensurabili maniere di guardare al mondo e di praticare la scienza in esso”.

In seguito a questo situazione non si può parlare di continuità della storia delle discipline medesime, la cui evoluzione è invece frammentata e contraddistinta dalla presenza di “salti comunicativi” che pongono riaventi problemi di comunicazione e di traduzione. Se ci poniamo, ad esempio, il problema della relazione tra la dinamica newtoniana e quella relativistica e ci chiediamo se sia realmente possibile far derivare la prima dalla seconda, ci troviamo, immediatamente, di fronte al fatto che “i riferimenti fisici dei concetti einsteniani non sono affatto identici a quelli dei concetti newtoniani che hanno lo stesso nome”, per cui “le leggi di Newton non sono un caso limite di quelle di Einstein. Infatti nel passaggio al limite non è soltanto la forma delle leggi che è mutata. Simultaneamente abbiamo dovuto alterare anche gli elementi strutturali fondamentali di cui si compone l’universo a cui quelle leggi si applicano. Questa necessità di mutare il significato di concetti tradizionali e familiari costituisce il nucleo dell’effetto rivoluzionario avuto dalla teoria di Einstein”.

Ciò che questo esempio dimostra, di conseguenza, è che “la transizione da un paradigma in crisi a uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. È piuttosto una ricostruzione del campo su nuove basi, una ricostruzione che modifica alcune delle più elementari generalizzazioni teoriche del campo, così come molti metodi e applicazioni del paradigma”.

Non è un caso che Gramsci, in un passo del Quaderno II (XVIII) del 1932-1933, si ponga questo problema dell’incommensurabilità e ritenga cruciale risolverlo: “La trducibilità presuppone che una data fase della civiltà ha una espresisone culturale «fondamentalmente» identica, anche se il linguaggio è storicamente diverso, determinato dlla particolare tradizione di ogni cultura nazionale e di ogni sistema filosofico, dal predominio di un’attività intellettuale o pratica ecc. Così è da vedere se la traducibilità è possibile tra espressioni di fasi diverse di civiltà, in quanto queste fasi sono momenti di sviluppo una dall’altra, e quindi si integrano a vicenda, o se un’epressione data può essere tradota coi termini di una fase anteriore di una stessa civiltà, fase anteriore che però è più comprensibile che non il linguaggio dato ecc.”.

Qui la prossimità e l’analogia con il problema posto trent’anni dopo da Kuhn sono lampanti. Gramsci però non può orientarne la soluzione nella direzione dell’incommensurabilità, in quanto la filosofia della prassi si caratterizza proprio per il fatto che in essa, come conclude il passa appena citato, “la «traduzione» è organica e profonda, mentre da altri puntio di vista spesso è un gioco di «schematismi» generici”.

Già, ma dove trovare la chiave per operare questa traduzione? Gramsci scarta decisamente la via dei contenuti, delle idee e delle concezioni del mondo per seguire un’altra pista, che emerge chiaramente in quest’altro passo dei Quaderni. “Confrontare la cultura greca con quella egiziana, ad esempio, non può significare confrontarne i valori (morali in senso ampio) e per di più dal nostro angolo visuale, ma confrontarne la struttura, cioè la connessione esistente fra i vari gradi della società e la estensioen in profondità dei ‘gradi’ culturali”.

L’unica possibilità di un esame comparativo fra culture diverse, sia appartenenti alla stessa epoca che ad espoche diverse, da un punto di vista rigorosamente critico, sta pertanto nell’analisi strutturale, e cioè nel raffronto non di ciò che viene difeso e diffuso ma piuttosto delle organizzazioni di diffusione e di difesa. Gramsci è talmente perentorio nel sostenere fino in fondo questo putno di vista da istituire una radicale polarità tra scienza e azione, tra concezione del mondo e organizzazione, sulla base della quale si spinge, com’è noto, ad affermare che ”storicamente sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo -Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessari nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesino-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, e non teorico)”.

Dove possiamo rintracciare la genesi di questa soluzione, che fa dell’organizzazione e dell’azione il perno del confronto e della reciproca traducibilità tra teorie, culture e concezioni del mondo? Non possiamo dimenticare, a questo proposito, che nel 1922, quando Gramsci arrivò a Mosca, uscì qui l’edizione completà di una fondamentale opera di Bogdanov, la Vseobščaja organizaionnaja nauka: Tektologija (Scienza generale dell’organizzazione; Tectologia), comprendente le prime due parti, scritte, rispettivamente, nel 1913 e nel 1916, arricchita di una terza, intitolata, appunto, Tectologia.

Che cos’è la Tectologia? Il titolo è già di per sé emblematico, in quanto è tratto dal verbo greco tektainomai, costruisco, e fa dunque riferimento al proposito di dimostrare che ogni attività umana nel campo della tecnica, della prassi sociale, della ricerca scientifica e dell’arte può essere considerato come materiale dell’esperienza organizzativa, e studiata dal punto di vista dell’organizzazione.

L’idea di fondo dell’opera è dunque quella di assumere l’organizzazione come centro della riflessione riguardante non soltanto i processi del lavoro e della pratica in tutte le sue diverse espressioni e manifestazioni, ma anche le forme e gli stili della conoscenza teorica, in base alla premessa che ogni forma di attività umana presuppone, comunque, preliminarmente un intervento di tipo organizzativo guidato dall’obiettivo che il soggetto persegue. E siccome questo soggetto è sempre e comunque, secondo Bogdanov, un soggetto collettivo, a sua volta caratterizzato da un’organizzazione interna e che deve essere pertanto visto e considerato dal punto di vista di quest’ultima, l’organizzazione costituisce il terreno in grado di unificare l’analisi relativa al soggetto della conoscenza e quella concernente i suoi oggetti. Proprio come sosterrà Gramsci nei Quaderni.

Il fatto che Gramsci non citi mai Bogdanov non può certo sorprendere, dal momento che dopo la dura critica rivolta da Lenin a quest’ultimo nel 1908 in Materialismo ed empiriocriticismo e la conseguente scomunica fare anche solo un accenno al suo pensiero e alla sua opera era del tutto improponibile. L’intera costruzione della Tectologia si basava sul presupposto che atto percettivo e atto motorio sono dimensioni strutturalmente integrate, per cui la conoscenza ha a che fare con l’organizzazione dell’ambiente esterno, non con la descrizione di esso e la costruzione della sua immagine.

Questo riferimento privilegiato all’azione non riguardava e non doveva interessare soltanto le classi dirigenti ma andava esteso, secondo Bogdanov, anche al senso comune. Ecco perché egli cercò non solo di realizzare concretamente, ma anche di diffondere in maniera capillare questa sua visione della conoscenza scientifica e, in generale, del processo di sviluppo culturale legato alla circolazione e condivisione del sapere, attraverso l’istituzione di una scuola, il Proletkul’t, che ebbe il suo maggior periodo di attività dopo la rivoluzione del ’17. Si trattava di un’istituzione educativa a sfondo artistico e letterario da lui creata con lo scopo di insegnare i principi e i fondamenti di una nuova cultura proletaria che fosse destinata, appartenendovi del tutto, agli operai stessi.

Nel Proletkul’t Bogdanov insisteva sulla democratizzazione della conoscenza sulla base della creazione di una enciclopedia destinata ai lavoratori e da essi redatta, dell’istituzione di università per i lavoratori, e dell’impegno in favore della creazione di un’arte proletaria. In O Proletarskoj Kul’ture egli affermava che la scienza non era sorta come uno spazio di riflessione separato dai problemi pratici dell’uomo, ma come un prodotto collettivo.

Ecco perché è significativo il fatto che Gramsci, nella lettera alla madre dalla quale abbiamo preso le mosse, riferendosi a ciò che si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene o di male e che passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo, parli di “ogni nostra azione”, e che, come ha ricorda Andrea Oppo nel suo intervento a Ghilarza, pubblicato in questo sito, la religione che interessa al grande pensatore sardo è quella connessa all’agire umano, è un fatto, non un’idea. La sua valutazione del cristianesimo, inteso come esito, come azione, non differisce per questo dalle sue valutazioni di tutto il resto. Come scrive esplicitamente alla madre, se l’azione va verso un fine buono, lui la valuta positivamente; viceversa, se va verso un fine cattivo, la valuta negativamente.

Ed ecco infine perché Gramscii, nel suo tentativo di ottenere la liberazione elaborando il piano di un complicato scambio di prigionieri, così dettagliatamente ricostruito da Giorgio Fabre nel suo densissimo libro Lo scambio, si affida totalmente alla mediazione della Chiesa cattolica. Ad attirarlo e ad alimentare la sua speranza era la grande forza e capacità organizzativa del Vaticano, unico soggetto politico in campo, a suo giudizio, che proprio per questo poteva agire con qualche possibilità di successo.

Questa strategia può essere compresa in tutti i suoi aspetti se al centro della ricostruzione storica poniamo, come ci esorta a fare Adriano Prosperi, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico, la sua biografia, il complesso delle tradizioni e delle idee che influirono su di lui e le sue doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini.

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