Cagliari verso la città-stato ….[di Salvatore Cubeddu]
Non credo che i Riformatori volessero questo quando hanno programmato l’abolizione di tutte le province sarde. Neanche Del Rio o Renzi hanno avuto tempo o consapevolezza per riflettere su cosa significasse per la Sardegna quello che decidevano per l’insieme dello Stato. Quando Roberto Deriu – allora presidente della provincia di Nuoro – avvisava nel silenzio generale cosa sarebbe diventata la Sardegna con la testa tutta spostata su Cagliari. E parlava al deserto. Eravamo arrabbiati tutti – anch’io che ne scrissi tre volte su L’Unione – contro il moltiplicarsi di poltrone e di capoluoghi decisi con le quattro ulteriori province ‘regionali’: il maggiore scandalo dell’accoppiata centro-destra/centro-sinistra sardi prima dell’ultima legge elettorale che ha portato la giunta Pigliaru a governare con poco più del 20% degli aventi diritto al voto. Chi si batté per l’abolizione delle province non aveva presente che, intanto, Cagliari andava a diventare città-metropolitana, unica promozione istituzionale nel mentre venivano degradate, con l’abolizione contemporanea delle province storiche, le altre poche città sarde, ridotte così all’insignificanza. Non era prevedibile che proprio dall’occasione truffaldina offerta presso il Consiglio regionale della Sardegna sarebbe partita la campagna di delegittimazione dell’insieme del ceto politico abbarbicato nelle Regioni italiane. Non era nemmeno immaginabile che l’esito dei dieci referendum avrebbe spinto i nostri consiglieri a salvarsi il proprio stipendio nascondendolo in una notte di giugno nelle pieghe di una leggina per i precari. Portando l’istituzione – che avrebbe dovuto già riformare lo statuto dell’autonomia alla data della sua grande crisi (1978, fine della rinascita) – a trovarsi nuda di fronte alla riforma istituzionale dello Stato italiano. Ritrovandosi senza voce né dignità nei recenti lunghi mesi in cui si è deciso un senato a composizione regionale diversificata secondo gli abitanti, nonostante le sollecitazioni e le discussioni sul federalismo riproposto negli ultimi decenni tramite comitati, leggi per l’assemblea costituente, manifestazioni e proposte di legge. Il combinato composto di fatti economici e demografici, eventi istituzionali, responsabilità degli uomini, insipienza del ceto politico (e gli scherzi della storia) portano al risultato forse non pensato e non si sa se voluto: la nostra Isola del futuro sarà una città-stato con il nome di Cagliari e sullo sfondo un territorio in dissolvenza storicamente chiamato Sardegna. Finora non c’era stato spazio per una diversificazione di grado tra le città sarde capoluogo di provincia. La distinzione tra città metropolitana e città ‘intermedie’ fonda prima di tutto una gerarchizzazione che non potrà non estendersi ai comuni, proprio quelli che hanno pagato fino all’estinzione le decisioni insipienti dei ceti dirigenti urbani che in questi giorni hanno trovato tra loro un accordo. Una partita che si sta nascondendo dietro promesse economiche e nell’impossibile confronto con situazioni d’Oltralpe. Aboliamo le province per motivi economici e pensiamo di cancellare le istituzioni ripagandole con promesse di nuovi e maggiori finanziamenti: ma come ci si può credere? I finanziamenti possono arrivare o non arrivare, le istituzioni restano o si cancellano per tempi difficilmente recuperabili. E poi: chi potrà rimproverare allo Stato la concentrazione dell’insieme delle sue funzioni a Cagliari una volta che le medesime decisioni vengono assunte dalla massima sede istituzionale della Sardegna? Chi avrà la forza di rispondere quando lo Stato ponesse un limite di abitanti alla stessa istituzione dei comuni? Pensavamo che il movimento dei sindaci riunito a Sassari, Porto Torres, Nuoro, Abbasanta, si stesse avviando verso assunzione di responsabilità nella rifondazione delle nostre istituzioni, superando il momento rivendicativo così pericolosamente intriso di campanilismo, per aiutare il Consiglio regionale a operare scelte recuperando un’idea unitaria della Sardegna. Mentre scriviamo ci sembra di dover prendere atto che così non sarà. Non ne conosciamo neanche il motivo, le modalità, gli esiti possibili, dato che il documento dell’accordo tra il governo regionale e l’associazione dei sindaci non è disponibile per la pubblica opinione, pare secretato per imposizione non si sa di chi. Secretato … richiesto del silenzio, del segreto … il documento che decide come e cosa il Consiglio regionale debba decidere del futuro della Sardegna? Con il bollo del ricatto: se i consiglieri regionali non lo voteranno si va tutti a casa. L’ombra che pare abbia aleggiato nelle riunioni dei sindaci delle ultime settimane. E noi dovremmo onorare, tenere in onore, dei nostri consiglieri che votano sotto ricatto? Il silenzio colpevole è lo stigma della classe dirigente sarda. Quella che rinunciò all’obiettivo 1 dei finanziamenti europei per non eliminare la grande industria, allora sopravvissuta alla crisi (Saras, Alcoa, Portovesme srl), dal computo del PIL regionale. Il silenzio ha caratterizzato tutta la recente vicenda della riforma del senato delle Regioni, come se da decenni non si fosse affermata all’interno delle nostre comunità la convinzione che la specialità della Sardegna si fonda sulla particolarità del suo Popolo in cui la geografia, la storia, la cultura e la lingua ne fanno una Nazione, che non può essere valutata nel semplice conteggio dei suoi abitanti. Ma il più grande silenzio viene rappresentato anche da questa giunta e dal Consiglio regionale nella rinuncia ad affrontare organicamente le tematiche statutarie, venendo costretto dallo Stato ad adeguarsi a decisioni di retroguardia che poco hanno a che fare con i caratteri socio-storici e con gli interessi dei Sardi. Tutto ciò che è o sa di soggettività – statuto di autonomia, die de sa Sardigna, limba … – è negletto in questi anni dove ci riduciamo a pezzenti elemosinanti le briciole dei nostri diritti. Eppure ci riteniamo, e in tanti ci vedono, un popolo che tiene al rispetto di sé e alla propria dignità. Chissà … |