Il presidente il babbo e i giudici [di Roberto Saviano]
La Repubblica, 16 dicembre 2015. Ricordo un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sull’Huffington Post. Era del 2013 e riguardava una bufera piccola perché periferica, piccola perché marginale rispetto a ciò che riguarda il governo centrale. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris voleva che suo fratello Claudio, che aveva costruito la campagna elettorale (è attribuibile a lui lo slogan “scassiamo tutto”, versione napoletana della rottamazione renziana) e gli aveva fatto da consulente praticamente gratis, avesse un incarico retribuito e lo voleva alla direzione del Forum delle culture. Si levarono scudi contro questa candidatura e a Cantone fu chiesto se si trattava di sciacallaggio o di legittima critica. Rispose che « (gli sciacalli ndr) ci sono, ma non mi permetto assolutamente di annoverare tra questi i media, che registrano fatti e opinioni, favorendo così l’indispensabile controllo da parte dell’opinione pubblica». Perché ho ricordato questa vicenda? L’ho fatto perché il potere, sempre, deve sottostare a delle regole auree e una di queste, in democrazie avanzate, è costituita dalla accettazione della funzione di controllo svolta dai media. Non è sciacallaggio, non è remare contro, ma è svolgere un’azione fondamentale e doverosa di controllo sulla cosa pubblica; per fare ciò bisogna porre delle domande, magari trovare le risposte per offrirle ai cittadini, perché possano giudicare il governo in maniera consapevole. Non era sciacallaggio parlare del fratello di De Magistris e non lo è chiedere chiarezza sul padre del ministro Boschi. Lo sciacallaggio lo fa chi come Salvini dà dell’infame a Renzi e gli addossa la colpa del suicidio del pensionato che ha perso i suoi investimenti. Lo fa chi inquina la politica irresponsabilmente con una demagogia violenta e incivile. Lo fa chi crede che porre domande a un esecutivo equivalga a volerlo mandare a casa. Ieri il premier è tornato ad attaccare i giornali. Sembra non capire che il confronto serve a crescere, a misurarsi, che è il sale della democrazia. Sembra non capire che non bastano i simulacri di confronto quali sono state le imbarazzanti domande concordate della Leopolda. Mentre ascoltavo il lungo discorso del premier che ha chiuso la manifestazione, la mia attenzione è stata catturata da una frase detta con leggerezza, quasi con disattenzione «Quindici mesi fa il mio babbo – ha detto Renzi – è stato indagato e gli è crollato il mondo addosso. La procura ha chiesto l’archiviazione del suo caso, ma lui passerà il suo secondo Natale da indagato. Io gli ho detto “zitto e aspetta”. Ma lui mi dice che dovremmo passare al contrattacco, io, però, non dirò mezza parola, perché ho fiducia nella giustizia». Non so se ho capito bene – anche se è tutto piuttosto chiaro – ma il premier riferisce che suo padre, per una vicenda giudiziaria personale, avrebbe detto «dovremmo passare al contrattacco». «Dovremmo» chi? Viene da chiedersi. Perché il premier si sente coinvolto nella strategia difensiva di suo padre? A che titolo dovrebbe eventualmente dire quella «mezza parola»? E a chi? Nel ruolo di figlio o di presidente del Consiglio? (Ma è poi possibile smettere di essere il presidente del Consiglio per occuparsi, in forma privata, di questioni giudiziarie che riguardano familiari?). E ancora, «passare al contrattacco»: contro chi? Non gli viene in mente che nel suo ruolo non può neanche permettersi di scegliere o meno se passare al contrattacco, in risposta a una vicenda privata? Che cosa può significare questa frase? Che la linea del governo in materia di giustizia la detterebbe Renzi padre? Cos’è questo: un avvertimento o semplici parole in libertà? Sembra che il presidente del Consiglio, desideroso di rispondere con il sorriso, non sia stato in grado di misurare le proprie parole. Oggi, a bocce ferme, ha il dovere di chiarire cosa intendesse e quanto le vicende familiari influiscono sull’azione del suo governo. |